Viaggio in Italia: fotografare frammenti di un Paese

Viaggio in Italia: fotografare frammenti di un Paese

Viaggio in Italia: progetto fotografico del ‘84 di Luigi Ghirri affiancato dagli scritti di Gianni Celati.

Subito il titolo a ricordarci l’opera di Goethe e, per antonomasia, l’intera tradizione del Grand Tour. Si svela così il primo interlocutore del progetto. Ma, al contempo e soprattutto, la più generale consapevolezza che sempre “viaggio in Italia è viaggio dentro l’immagine”. Questo per dire: lo sguardo sull’Italia è sempre immaginario, sempre filtrato da una tradizione iconica che da secoli vuole dirci, in vario modo, cosa l’Italia sia. In questo contesto, uno dei più imponenti “ritratti mitici” dell’Italia è, appunto, quello ereditato dalla secolare tradizione del Grand Tour: antichità romana e classicismo rinascimentale. Si stava delineando, in quel frangente, la fisionomia di un turismo moderno nella penisola e con esso la necessità di una produzione d’immagine. Ne fecero da perno da un lato il gusto per il pittoresco e il bucolico, dall’altro la predilezione per il monumento. Tuttavia, se è vero che tutto questo si consolidò lungo il XVIII-XIX secolo in pittura, anche la fotografia del XX ne condivise (ereditandola) l’inclinazione fondamentale. Ci ritroviamo ora per le mani una cartolina: ma che altro raffigura se non ancora piazza San Marco (sempre sotto il solito scorcio), o qualche tranquillo pescatore sul molo – idillico folklore locale.

È un’immagine certa dell’Italia, tutta d’un pezzo, senza indecisioni, che cerca tenacemente d’incardinarsi sul grandioso od umile “c’era una volta”. L’arte era animata dalla certezza di un Paese che sapeva di edificare la propria identità su un terreno saldo. Vien da sé che il fascismo attinse abbondantemente a questo immaginario che, ciononostante, non capitolò con esso ma sopravvisse anche nel dopoguerra. “Così il mito della genuinità della campagna, delle antiche abitudini viene costruito, proprio quando l’Italia si avvia finalmente allo sviluppo industriale” degli anni ’50 -‘60.

Rispetto a tutto ciò, Ghirri e Celati hanno in mente un diverso panorama: l’Italia dei “margini”, dei “capolinea”, periferici, anche industriali. È, quindi, Viaggio in Italia un’arte che vuole essere per la propria epoca? Una documentazione di un mutamento sociale? In parte sì – in quanto esce da mitologie antiquarie – ma, ad uno sguardo più attento, no. Sono altri quelli che “cercano solo “le ragioni” del mondo, dunque prendono ogni immagine solo come apatica informazione sul funzionamento esterno”. Non c’è alcuna volontà documentaria, storica sociale politica, nessuna spiegazione da fornire; soltanto apparenze che si mostrano. “Parlando in quella lingua di grosse parole (sociologiche o altre) che spiegano tutto, diventa difficile accorgersi ogni tanto d’esser qui”. “Ad ogni epoca la sua arte” non nel senso di un nuovo soggetto fotografato, più moderno e attuale, piuttosto un nuovo presupposto dello sguardo – che è attirato, certamente, anche da nuovi e inediti soggetti.

Ecco arrivati al punto, tirando le fila di quanto detto. In una parola, Viaggio in Italia contrappone all’intero il frammento. La cartolina non ha esitazioni; il documentario sociale si regge su un sicuro senso del mondo. A questa immagine compatta, completa, totale dell’Italia, viene contrapposta una sghemba composizione di frammenti. Dell’Italia si vede la contraddittorietà, banalità quotidiana, che mai si riconcilia in un quadro d’insieme. “Da queste foto non si riesce a cavare nessuna generalizzazione del tipo: “cos’è l’Italia”. Sono solo cose che “sono là”, si fotografa il loro semplice apparire, disconnesso, che accade”. Un casale abbandonato, un silos di periferia, non certo la grande Italia romana. Raggiunta la consapevolezza che nel quotidiano abbiamo per le mani solo questi frammenti sparsi, cosa resterà mai da spiegare? Si tratta, piuttosto, di guardare, descrivere con una “passione per il mondo così com’è (non il mondo come dovrebbe essere per essere migliore o perfetto)”.

Ripulito lo sguardo dalla “caterva di valutazioni ideologiche, morali o di gusto, che cancellano l’esperienza del vedere”, cosa resta? Cosa ci si mostra? O, ancor meglio, come ci si mostra quel mondo che, pur sempre, già prima vedevamo? Apparenze casuali e sparse. Iniziamo da questo termine: “apparenza” – usatissimo da Ghirri e Celati. Racchiude un duplice significato: “ciò che si mostra” (appare, appunto), e dall’altro “finzione che nasconde qualcosa di più reale” (“è tutta apparenza!”). In Viaggio in Italia i due sensi si mischiano. Il nostro mondo, che ci si mostra, è finzione ed illusione. Sembra il classico tema della vita come sogno – prima orientale, poi spagnolo e portoghese – dove al sonno si contrappone la verità che dietro a questo si confonde. Ma quale verità si cela nell’Italia del ‘84? Nessuna. Viaggio in Italia ci mostra una realtà di apparenze mute, di superfici senza profondità, di finzioni senza verità retrostanti. “La commedia delle apparenze continua sempre là fuori”. Ci viene in soccorso la metafora barocca del mondo-teatro. Ma a differenza del ‘600 – dove dietro la finzione mondana c’era la realtà della morte e rinascita -, qui il teatro è preso alla lettera: questo, come il nostro mondo, è certamente una finzione, ma mai ci chiederemmo se il palcoscenico nasconda una realtà dietro a sé. Il mondo è messinscena, e, tuttavia, è tutto qui e soltanto questo. Soltanto questo spettacolo – finzione teatrale – al quale assistiamo. Nient’altro che “una trama di rapporti cerimoniali per tenere insieme qualcosa d’inconsistente […] l’astratto gioco del mondo”.

I margini del Bel paese ci hanno svelato che l’Italia tutta è questo nulla di fatto, nulla di eccezionale.

“A tratti le mosse degli altri sembrano pose per tenere in piedi una rappresentazione senza senso. Impressione d’un ordine vuoto che si ripete dovunque e per nessun motivo. Nelle metropoli tutti si aggrappano gli uni agli altri in amori soffocanti, per non sentirsi persi in quell’ordine vuoto che si ripete senza motivo. Qui [ai margini] c’è piuttosto il senso che le cose stiano così e basta, e non ci sia poi una gran differenza tra quella ripetizione perpetua e lo spuntar di arbusti a caso lungo una strada”.

Gianni Celati, Verso la foce

Sorge, infine, il problema della forma: in che modo rappresentarla, questa Italia – una sempliciona senza santi in paradiso? Nella “metropoli” è fiorito il grande romanzo di formazione, l’opera mondo che tutto comprende in sé. Nel grandioso incedere della sua trama ogni vicenda acquista un senso in virtù dell’essere una parte di un tutto, fino a giungere al finale, che assume tutto e a tutto dà coerenza. Periferie e campagne, di contro, non ne comprendono lessico e stilemi. Estranee alla retorica metropolitana tengono pragmatica fede a racconti orali e proverbi, che per loro natura non ambiscono a completa coerenza. Qui la forma è il frammento: sono le terre spaccate, i cretti incisi dalle aride estati sulle spiagge del Po. Fedeli a ciò, Ghirri e Celati, per così dire, al romanzo preferiscono il proverbio. Guardiamo per un attimo a Verso la foce di Celati: la sua forma è il diario. Non una casualità, piuttosto la meditata scelta per un ordine disorganico. Mantiene, il diario, la freschezza della materia viva, di una scrittura en plain air, al pari della fotografia. Parole impresse su carta, quasi fosse luce a stamparsi in aforismi visivi, riflessioni sparse, magari parziali o contraddittorie, ma che l’oggetto stesso richiede tali. Parlando di Verso la foce, Celati dice: “Non era letteratura, perché oggidì letteratura vuol dire romanzi, e ogni romanzo è oberato da una penosa storia […] In questo mestiere l’unica cosa che non sia fumo negli occhi sono i pezzi di roba sparsa da cui parti, dove giri intorno a qualcosa sempre in fieri, fatto di immagini e pensieri non ancora addomesticati”.

Concludendo. Se qui ho cercato anch’io di ricostruire il senso di alcunché, valgano come ammonimento e invito al concreto queste parole di Celati riguardo ai nostri quotidiani racconti orali: “ascoltare una voce che racconta fa bene, ti toglie dall’astrattezza di quando stai in casa credendo di aver capito qualcosa “in generale”. Si segue una voce, ed è come seguire gli argini d’un fiume dove scorre qualcosa che non può essere capito astrattamente”.

Bibliografia

Gianni Celati, Verso la foce, Feltrinelli, Milano, 1989

Gianni Celati, Quattro novelle sulle apparenze, Feltrinelli, Milano, 1987

Gianni Celati, Narratori delle pianure, Feltrinelli, Milano, 1985

Luigi Ghirri (a cura di), Viaggio in Italia, Il Quadrante, Alessandria, 1984

Essere la città. Una passeggiata tra il tempo e lo spazio

Essere la città. Una passeggiata tra il tempo e lo spazio

Se la strada da percorrere tornasse ad essere, per una volta, corso alberato, vicolo angusto, piazza porticata? Tallone, dopo punta, dopo tallone imparerei semplicemente a vedere ciò che ho sempre (ciecamente) guardato.

“Il passeggiatore solitario e pensoso” si smarrisce, così, sempre in luoghi concreti. C’è chi lo chiama occhio di Parigi, chi kinoglaz (cineocchio), chi flâneur, ma credo abbia tanti nomi, quanti sono gli occhi abili a vedere.

Indugia, innanzitutto, presso la folla, prodotto peculiare della città moderna: “dove gli uomini vivono, estranei l’uno all’altro e viandanti l’uno accanto all’altro”. Nel marasma di volti scoloriti è l’unico a tentare di riconoscere questi viaggiatori di viaggi comuni. Ognuno di essi ha una storia le cui tracce si leggono nel viso, negli abiti, nel portamento: sono le infinite vicende che intessono la trama vivente della città. Godere della folla richiede, però, l’abilità d’essere “sé stesso e un altro […] come quelle anime erranti che cercano un corpo”. Qui il passeggiatore subito esclama: “Ciò che gli uomini chiamano amore è ben poca cosa […] paragonata a questa santa prostituzione dell’anima che si dà tutta intera […] all’imprevisto che si mostra, all’ignoto che passa”.

Talvolta, nell’errare dell’anima fra i vari corpi della folla, l’assale tutt’insieme un tremore improvviso. È una passante, dice Baudelaire, “esile e alta, in lutto, maestà di dolore. […] Bellezza fuggitiva / che con un solo sguardo m’hai chiamato da morte”. È un solo istante: “non ti vedrò più dunque che al di là della vita, / […] tu ignori dove vado, io dove sei sparita”. Un attimo al di là del tempo che riporta, questa volta Benjamin, alla propria infanzia: “mentre con calcato zelo si rivolgeva all’amico, per la prima volta lo sguardo del ragazzo cercò di stringersi a una passante. E così intenso fu il suo sforzo di non tradirsi né con la voce né con lo sguardo, che della passante non vide nulla”.

Sempre, ricordi come questo, riaffiorano alla memoria immancabilmente legati a certi luoghi. Ciò che spesso stupisce, però, è il luogo e il tempo sul quale la memoria decide di porre il suo accento: si hanno i ricordi più vividi delle situazioni apparentemente più insignificanti. Tuttavia, a queste immagini ordinarie è stato affidato qualcosa di ulteriore e più profondo: ci parlano della nostra intera persona, di tutto ciò che siamo. Così, per Benjamin, la cartolina di una piazza notturna, seppur sconosciuta, può essere sineddoche per il ricordo della sua Berlino invernale e, forse, per l’intera sua infanzia cittadina.

Vien da sé, però, che la memoria divenga un fine intarsio di luoghi soprattutto per il passeggiatore accorto. Dopotutto, lui soltanto s’avvede che “l’anima è, in certo modo, tutte le cose”: se le guardo, io sono queste facciate rase dalla luce, se ascolto il rombare e lo stridere del tram sulle rotaie, mi faccio io stesso tram e rotaie. In questo modo il passeggiatore si mimetizza, si maschera da ogni cosa che vede e si fa tutt’uno con le atmosfere cittadine. Benjamin vede nei suoi nascondigli d’infanzia una premonizione di questa abilità – spesso nel gioco puerile si cela in forma grezza un fatto molto serio. Perciò rievoca: il bambino nascondendosi dietro la tenda “diviene a sua volta qualcosa di fluttuante e bianco, uno spettro. […] E dietro una porta è porta lui stesso, la fa sua sotto forma di pesante maschera”. Benjamin, bambino o passeggiatore, è libero da superstizioni egocentriche: sa di essere nient’altro che i propri luoghi e i propri oggetti.

Un legame particolare si crea, però, solo con lo spazio che si abita. Peculiare, appunto, per il suo paradosso: quanto più è vicino e frequentato, tanto più si fa muto e obliato. Certamente il consueto intreccio di orizzontali e verticali, sempre uguale a sé, che osserviamo giorno dopo giorno dalla finestra, sa rassicurare e culla, ma non ci sa più parlare del passato. Sempre, infatti, le forme della città sono contornate dai ricordi, ma questi disegni della memoria, insieme alle forme stesse, si fanno nitidi soltanto allo sguardo di chi torna dopo lunga separazione. Al rimpatriato, la città, vista come per la prima volta, restituisce i toni emotivi del passato, al tempo celati dall’abitudine. A quel punto, ogni cono prospettico, ogni scorcio, si rivela custode fidato di ciò che è trascorso. Ma che accade quando lo scrigno delle nostre memorie viene sfasciato?

“Parigi, / la vecchia Parigi è sparita (più veloce d’un cuore, / ahimè, cambia la forma d’una città). […] Parigi cambia! Ma niente, nella mia melanconia, / s’è spostato: palazzi rifatti, impalcature, / case, vecchi sobborghi, tutto m’è allegoria; / pesano come rocce i ricordi che amo”. Baudelaire visse la drammatica metamorfosi della sua Parigi a metà ‘800, alla quale il suo cuore non riuscì a tenere il passo. Il Barone Haussmann, prefetto della città, con squadra e matita traccia monumentali boulevard attraverso affastellati quartieri medievali. In pratica: decenni di lavori che traghettano Parigi verso un’inedita modernità – è qui che Baudelaire vede la folla -, al prezzo, tuttavia, di fagocitare sé stessa e i propri scenari passati. Rimangono soltanto gli immemori vegliardi – cattedrali, residenze reali… -, posti negli snodi centrali del tessuto urbano, a simboleggiare la continuità della città nel tempo, ma ridotti, ormai soltanto, a rispettabili antichità da collezione.

Ciononostante, se interrogati saggiamente, ancora sanno essere testimoni d’altre epoche. Così la chiesa di Combray, per Proust, è “qualcosa d’assolutamente diverso dal resto della città: un edificio che occupava, se così si può dire, uno spazio di quattro dimensioni – la quarta era quella del Tempo – che spiegava attraverso i secoli la sua nave”. E se saremo tanto audaci, giungeremo attraverso i millenni fino alle sue origini ideali.

Una volta, nel deserto del Mojave in California, vidi un cartello arrugginito, una sorta di spot pubblicitario, molto lontano dalla strada. Era piantato nel nulla, e le sue grandi lettere sbiadite annunciavano: Western World Development: slots 410-460. Qualcuno doveva aver progettato proprio in quel lembo di deserto una città. Il paesaggio circostante era completamente arido, si vedeva solo qualche sparuto cactus. Provai a immaginare lì una città: osservando quella distesa avevo quasi l’impressione che fosse effettivamente esistita, e soltanto scomparsa. Una cosa però non potevo ignorare: la regione era molto più antica di qualsiasi insediamento; quindi, era anche inessenziale sapere se fosse o meno esistito un agglomerato urbano.

Wim Wenders, L’atto di vedere

È questa una ripetizione del sacrilegio originario della fondazione: siamo ancora quei primi uomini empi che osarono ritagliare per sé un lembo di terra, proprietà eterna delle sole divinità telluriche. Da un tempo immemore, ormai, la città paga il fio di questa colpa nativa. Espierà il peccato soltanto quando la polvere “filtrerà dentro gli oggetti, si fonderà con gli oggetti, e alla fine ne prenderà il posto”. Ma la città, ancora, resiste, ed insieme ad essa la sua folla, le sue forme, le sue memorie.

“È come se lo spazio [la città], consapevole […] della propria inferiorità rispetto al tempo, gli rispondesse con l’unica proprietà che il tempo non possiede: con la bellezza.”

Bibliografia

Charles Baudelaire, I fiori del male, Einaudi, Torino, 2014

Charles Baudelaire, Lo spleen di Parigi, Garzanti, Milano, 2023

Walter Benjamin, Infanzia berlinese intorno al millenovecento, Einaudi, Torino, 2001

Iosif Brodskij, Fondamenta degli Incurabili, Adelphi, Milano, 1991