Eretta nel vento. L’identità triestina sospesa fra Carso e mare

Eretta nel vento. L’identità triestina sospesa fra Carso e mare

Un viaggiatore che arrivi a Trieste dall’Italia, passati Venezia e Monfalcone, dal finestrino del treno scorgerà la distesa azzurra del Golfo. Il confine con la Slovenia è poco lontano e scorre parallelo ai binari. Il viaggiatore vedrà un puntino bianco sulla costa ingrandirsi fino ad assumere le sembianze del Castello di Miramare, costruito nell’800 per volontà di Massimiliano d’Asburgo, fratello dell’allora imperatore d’Austria. La storia narra che egli trovò rifugio da una tempesta in questa baia, ancora selvaggia, e qui volle costruita la sua dimora, nido d’amore per la moglie Carlotta, principessa del Belgio. Lo ha ricordato Carducci nelle Odi barbare: “Deh come tutto sorridea quel dolce/mattin d’aprile, quando usciva il biondo/imperatore, con la bella donna,/a navigare!/A lui dal volto placida raggiava/la maschia possa de l’impero: l’occhio/de la sua donna cerulo e superbo/iva su ’l mare.” Ma la coppia non poté godere a lungo della reggia, del mare e delle piante che ricoprono le rocce carsiche del promontorio. Nel 1864 Massimiliano fu incoronato re del Messico e partì alla volta delle Americhe, dove conobbe la morte, fucilato dai rivoluzionari messicani di Benito Juárez. Carlotta, che invano aveva cercato di convincere i potenti europei a dare man forte al marito, impazzì dal dolore. “Addio, castello pe’ felici giorni/nido d’amore costruito in vano!/Altra su gli ermi oceani rapisce/aura gli sposi.” Per il Castello da allora sono passati numerosi capi militari, molti dei quali morti altrettanto tragicamente, come la principessa Sissi o Francesco Ferdinando, il cui assassinio a Sarajevo darà luogo all’inizio della Prima guerra mondiale. Molti dei gerarchi nazisti che durante il secondo conflitto mondiale avevano residenza a Miramare furono poi fucilati dagli alleati, e la maledizione del Castello divenne ben nota. Quando, dopo il 1945, Trieste divenne Territorio Libero, diviso fra alleati e jugoslavi, vi fu un colonnello dell’esercito neozelandese che scelse di non dormire fra le mura di Miramare e invece di accamparsi nel giardino del parco. La sua sorte fu risparmiata.

Sceso alla Stazione Centrale di Trieste, il nostro viaggiatore si troverà davanti Piazza della Libertà, coi suoi alberi e i silos. Qui arrivano anche i migranti provenienti dai Balcani, e qui si possono trovare attivisti e volontari che si adoperano per offrire loro cibo e coperte. Intorno alla piazza centrale, si incrociano le strade che da Miramare portano al centro della città. Nei mesi più caldi, al tramonto, il sole si riflette sui palazzoni imperiali e dona loro riflessi ambrati; l’azzurro del mare qua non si intravede ancora, ma basta proseguire dritti, seguire il traffico, e s’intravederà nella distanza una folla di persone che paiono camminare sull’acqua. Dalla piazza centrale di Trieste – un tempo Piazza Grande, oggi Piazza Unità d’Italia – si estroflette una passerella grigia, il Molo Audace. Qui, il viaggiatore può fermarsi e aspettare il calare del sole. Piazza Unità pare aprirsi sul mare e accoglierlo in un abbraccio. Luci azzurre fissate sul pavimento sembrano allungare l’estensione dell’acqua fin dentro la città. Una targa per terra ricorda che in questa piazza il 18 settembre 1938 Mussolini annunciava i “provvedimenti in difesa della razza italiana”, le leggi razziali già firmate dal re Vittorio Emanuele III. Lo annunciava in questa piazza, gremita e aperta sul Mare Adriatico, non lontano dal confine con l’Austria che era già stata annessa dalla Germania nazista.
Lasciato il Molo Audace e la targa in memoria delle leggi razziali antiebraiche, il viaggiatore si incamminerà verso le vie del centro fino ad approdare in Piazza Goldoni. Qui potrà scegliere se avventurarsi lungo Viale XX Settembre, disseminato di bar che offrono spritz a ogni ora del giorno, o se svoltare a destra. Da questo lato una scalinata imponente (la Scala dei Giganti) conduce il viaggiatore fino al Parco della Rimembranza. Fra le panchine e i pendii si possono scorgere pietre carsiche con iscritti i nomi dei triestini caduti nella Prima e nella Seconda guerra mondiale, nella guerra civile spagnola, nelle guerre d’Africa. Capita qui d’incontrare qualche turista o qualcuno che corre con gli auricolari e il cellulare fissato all’avambraccio, ma la cadenza prevalente è comunque quella dei triestini, con il loro parlare lento e un po’ sbiascicato. Il viaggiatore può seguire le comitive di adolescenti e studenti universitari che salgono le scale oltre il Parco della Rimembranza, fino al Castello di San Giusto e ai resti della Trieste medioevale. Se il nostro viaggiatore fosse un amante della Storia e dei suoi monumenti, potrebbe programmare per il giorno successivo una gita a Redipuglia, in provincia di Gorizia, per visitare un altro Parco della Rimembranza. Qui vicino, lungo il fiume Isonzo, nel corso della prima guerra mondiale si svolsero sanguinose battaglie e proprio qui Mussolini volle eretto il più grande sacrario militare italiano. Una gradinata di marmo bianco, affiancata da scale e alti cipressi, sovrasta il Carso. Ogni gradino, decorato dalla scritta: “PRESENTE” – richiamo all’appello fascista -, ripetuta per tutta la lunghezza, avvicina oltre centomila caduti italiani al cielo. Intorno, il Parco della Rimembranza ricorda il conflitto mondiale con camminamenti, trincee, lapidi.

Ma se il nostro viaggiatore dovesse preferire i paesaggi naturali alla storia, potrebbe prendere uno dei tanti autobus che portano sull’altipiano del Carso. Il tram che collegava il centro della città al quartiere di Opicina oggi è fermo; tra non molto sarà una cabinovia (che i triestini chiamano ovovia) a ricucire Trieste con il Carso, con rabbia e sgomento di parte della popolazione, che si è mobilitata per protestare contro quest’opera, ritenuta poco sostenibile dal punto di vista economico e ambientale. E se nel centro di Trieste è facile percepire gli sloveni come una minoranza – d’altronde si parla italiano in tutti i bar, e un viaggiatore distratto potrebbe persino scambiare qualche espressione per dialetto veneto – sul Carso le cose cambiano. I cartelli sono bilingui, il confine con la Slovenia è piuttosto vicino, tanto da confondere gli operatori di telefonia mobile: al nostro viaggiatore potrebbe capitare di ricevere un messaggio che dice: “Benvenuto in Slovenia” mentre si trova ancora su suolo italiano. A Opicina, a trecento metri sul livello del mare, convivono centri sportivi dal nome sloveno, un obelisco voluto dagli austriaci e la Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati, istituto attivo nei campi della matematica, della fisica, delle neuroscienze. Un’altra meta popolare per le passeggiate è l’area intorno a Basovizza, che ospita anche la foiba, dove nel corso dell’occupazione jugoslava furono portate a termine una serie di esecuzioni, soprattutto di italiani. I cadaveri furono occultati in un pozzo minerario del Carso.


Prima di sera, il viaggiatore tornerà in città, magari progettando di visitare il giorno seguente anche la Risiera di San Sabba, l’unico campo di sterminio istituito in Italia durante l’occupazione nazista. Sull’autobus osserverà i volti stanchi di chi rientra dal lavoro e i visi imberbi dei ragazzi che scendono in città per la sera. Poi, passeggiando nei vicoli, poco lontano dal mare, incontrerà la statua di Aron Hector Schmitz, che il viaggiatore conosce come Italo Svevo, ebreo convertito a cattolico dopo il matrimonio, scrittore e impiegato di banca. Svevo, nato in Viale XX Settembre quando Trieste era ancora austriaca, dopo il passaggio della città al Regno d’Italia scelse il suo pseudonimo in omaggio alle due culture a cui apparteneva, quella italiana e quella tedesca.
Se inizia a calare il buio e il nostro viaggiatore decide di ritornare verso Piazza Unità, non dovrà farsi prendere dallo sconforto se troverà i bar e i ristoranti chiusi. Svevo stesso ironizzava sulla lentezza della città natia, scrivendo su La Nazione: “Noi del Tramway di Servola abbiamo tutti un aspetto mite di bestie pazienti e bastonate e ciò precisamente perché apparteniamo al Tramway di Servola. Non a questo aspetto soltanto ci conosciamo noi del Tramway di Servola, ma ci conosciamo tutti per nome, cognome e famiglia, da lunghi anni… Poi facendo il bilancio della nostra vita troviamo che metà della stessa è stata impiegata per aspettare il Tramway di Servola e l’altra metà per augurare al Tramway di Servola di andare sulle sue rotaie a quell’altro paese.”

Le vicissitudini storiche che hanno attraversato la città del vento, la “piccola Vienna sul mare”, sembrano quasi aver fermato il tempo e in questa ferita fra terra e Adriatico, fra Carso e mare, Trieste perdura nelle sue divisioni e nelle sue contraddizioni. “Trieste ha una scontrosa/grazia”, scriveva Saba della sua città natale. “Se piace,/è come un ragazzaccio aspro e vorace/con gli occhi azzurri e mani troppo grandi/per regalare un fiore”. Qui, “Intorno/circola ad ogni cosa/un’aria strana, un’aria tormentosa,/l’aria natia./La mia città che in ogni parte è viva,/ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita/pensosa e schiva.”