L’italia nel pallone. La coscienza calcistica del Belpaese

L’italia nel pallone. La coscienza calcistica del Belpaese

Lo sport più popolare del mondo, “l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo”, come scrive Pasolini, la fa da padrone anche in Italia. Nel ricco bacino di citazioni riguardanti l’importanza del calcio nel Belpaese, una delle più abusate è quella – erroneamente – attribuita a Winston Churchill, una sentenza pregna di sarcasmo e supponenza tipicamente british: “Italians lose wars as if they were football matches, and football matches as if they were wars”. Questa citazione si inserisce in un discorso tanto ampio quanto banale: il calcio, in Italia, è importantissimo. Lo sappiamo tutti e, soprattutto, lo diciamo tutti, sia per criticare l’importanza e l’influenza di un semplice sport sulle sorti e sugli umori di una nazione intera, sia per rivendicare fieramente una passione sportiva. Tutti parliamo di calcio e siamo in grado di riconoscere quanto influisca sulla nostra cultura nazionale: che siano il Milan di Berlusconi, i Mondiali del 2006, Calciopoli o gli episodi di razzismo, l’elenco potrebbe non finire mai. Nel discorso pubblico, però, il calcio raramente viene riconosciuto come un fenomeno intessuto nella trama culturale italiana e quindi in grado di riflettere perfettamente degli aspetti che vanno ben oltre il semplice ambito sportivo. Perché il calcio influenza, sì, ma soprattutto è influenzato.

Lo scopo di questo articolo non è quindi difendere lo statuto culturale del calcio, ampiamente riconosciuto dai più, né ricordare per l’ennesima volta quanto sia influente. Piuttosto, l’intento è quello di ribaltare la narrazione del nesso fra calcio e cultura e propugnare una visione dello stesso come una sfera della quotidianità in cui la nostra coscienza nazionale (storica e socio-economica) si riflette. I riverberi della storia e della cultura italiana nel calcio sono molteplici e, fra tutti, questo articolo ne prende in considerazione due: le rivalità cittadine e l’identificazione politico-sociale. Entrambi sono inevitabilmente legati alla percezione del calcio da parte del pubblico e, soprattutto, delle tifoserie.

Rivalità cittadine: Bergamo e Brescia, Pisa e Livorno

Cominciamo dal primo: tantissime rivalità campanilistiche (l’elenco è interminabile) sono un perfetto esempio degli spettri culturali, storici e sociali che infestano il mondo del calcio. Molte di queste sono motivate più storicamente che calcisticamente e nel calcio trovano semplicemente possibilità di espressione superiori a molti altri ambiti. Nello specifico, la rivalità fra Bergamo e Brescia affonda le sue radici nel Basso Medioevo, quando “una rabbiosa e terribile guerra” (scrive Federico Odorici nelle sue Storie bresciane) viene combattuta sulle sponde dell’Oglio, teatro della battaglia di Palosco (1156) e di quella di Rudiano (1191). Le motivazioni, forse da ricondurre a dispute territoriali, sono decisamente poco chiare, mentre è evidente quanto questa avversione reciproca sia tuttora un fattore rilevante nel rapporto fra Bergamo e Brescia. Novecento anni dopo, la rivalità ha cambiato modalità d’espressione in maniera coerente con i mutamenti culturali ed etici, diminuendo di intensità pur senza dare segni di cedimento: l’antagonismo medievale e comunale perdura – in forma sublimata – nel derby Atalanta-Brescia. Gli eserciti comunali hanno lasciato spazio alle fazioni ultras e agli sfottò, dando vita a momenti iconici della storia recente del calcio italiano come, nel 2001, la corsa di Carlo Mazzone, allenatore del Brescia, sotto la curva dell’Atalanta.

Altrettanto celebre e longeva è un’altra rivalità cittadina, quella fra Livorno e Pisa, formatasi dal XIII secolo mentre la repubblica marinara di Pisa comincia il suo declino e il porto di Livorno cresce di importanza, minacciando gli interessi pisani. Centrale, nella storia della Repubblica di Pisa e nella rivalità con Livorno, è il rapporto con Genova: inizialmente alleate, le due repubbliche si scontrano fino alla sanguinosa battaglia navale della Meloria (1284), al largo del porto di Livorno, per poi riappacificarsi mezzo secolo più tardi; l’accordo viene tradito dai genovesi nel 1406, quando aiutano Firenze a prendere possesso di Pisa. Inutile dire che la rivalità fra Pisa e Livorno si è mantenuta, se non addirittura amplificata, fino ai giorni nostri: benché si presenti perlopiù in forma di scherno, quando si tratta di calcio questo antagonismo intra-toscano sa diventare decisamente violento. Ma mediante il calcio si è mantenuto anche il complesso rapporto con Genova: le tifoserie nerazzurra (Pisa) e rossoblù (Genoa) sono state a lungo unite da un forte gemellaggio, interrottosi nel 2003 proprio a causa degli ultras livornesi. Alla curva pisana, infatti, non erano andati giù alcuni incontri fra ultras genoani e ultras livornesi: in un messaggio ufficiale, il tifo organizzato pisano ha posto fine al gemellaggio a causa di questo “comportamento scorretto”: “Un gemellaggio si basa sul rispetto reciproco ed è proprio il rispetto che è venuto a mancare”, si legge. Insomma, un eterno ritorno su cui diversi filosofi avrebbero molto da dire, così come su molte altre rivalità in Toscana dai connotati decisamente medievali: la sentitissima partita fra Fiorentina e Siena viene talvolta definita derby guelfi-ghibellini; quello fra Grosseto e Siena è invece il derby delle saline, riferimento a conflitti fra i due comuni fra il XII e il XIV secolo.

Il fatto che queste e altre rivalità calcistiche italiane riprendano elementi di un passato anche lontano, di per sé, non prova nulla. Una motivazione potrebbe risiedere nell’esistenza di una coscienza storica, tanto locale quanto nazionale, che si manifesta ove possibile. Oppure, più semplicemente, le motivazioni che hanno spinto determinati comuni a scontrarsi – vicinanza, divergenze di interessi territoriali – potrebbero essere le stesse che portano due tifoserie a sviluppare una reciproca avversione. Sicuramente, sono molti i leitmotiv della storia italiana che si manifestano nel nostro modo di vivere il pallone.

L’identificazione simbolica

Essere tifosi significa partecipare di una rappresentazione altra e alta, che va oltre alla semplice collettività: tifare una squadra impone di relazionarsi a un insieme simbolico a tutti gli effetti, composto da elementi che sono da sempre imprescindibili nella costituzione culturale di un gruppo; fra questi, l’esistenza di un’epica specifica costituisce un elemento centrale nell’identificazione. In che senso un’epica? Nel senso che ogni squadra – e quindi ogni tifoseria – possiede una sua storia, declinata in senso mitologico: quasi sempre, si parte da un mito fondativo da cui derivano dei valori simbolici che finiscono per appartenere alla totalità di una tifoseria; esistono poi diversi miti disseminati lungo la storia della squadra che fungono da riferimento costante, in senso positivo o in senso negativo (il Milan degli olandesi, la Grande Inter di Herrera, la Juventus del Quinquennio e così via). Il mito fondativo è dotato di una sua rilevanza soprattutto in caso delle suddette rivalità stracittadine: i milanisti rivendicano di essere nati prima dell’Inter, così come i laziali prima della Roma, sfottendo i romanisti per essere nati da una fusione.

La narrazione mitologica propria di una squadra ne determina anche l’aspetto valoriale e quindi il processo di identificazione che stabilisce il perché io tifo. Fra gli infiniti esempi, prendiamone un paio, cominciando dalla Lazio, da sempre inequivocabilmente fascista. Ma perché la Lazio è fascista? Non perché non esistano tifosi laziali non fascisti, ma perché esistono pochi riferimenti della mitologia laziale che non lo siano. Per capire meglio si può guardare l’Inter, un’altra grande squadra il cui tifo organizzato si è a lungo identificato nei movimenti di estrema destra. L’Inter non è fascista, perché la sua storia – la sua mitologia – è ricca di riferimenti perfettamente distaccabili dal fascismo: nasce con il nome di “Internazionale” perché lo scopo era includere anche giocatori stranieri; fra gli “eroi” dell’Inter (Peppino Prisco, Boninsegna, Zanetti, Bergomi e così via) è difficile trovare figure accostabili all’estrema destra; potremmo andare avanti all’infinito. Dall’altra parte, è difficile non percepire la Lazio come fascista: il suo simbolo è da sempre l’aquila, il suo tifo organizzato si è sempre fortemente identificato nell’estrema destra; ma soprattutto, la sua mitologia è disseminata di riferimenti del genere, basti pensare a figure come Paolo Di Canio, Senad Lulić o Ștefan Radu, leggende laziali spesso protagoniste di controversie politiche. Un episodio esemplificativo da questo punto di vista è accaduto nel luglio 2021, quando un neoacquisto della Lazio, il terzino albanese Elseid Hysaj, ha deciso di cantare Bella Ciao alla cena di squadra. La risposta lapidaria degli ultras laziali al gesto del giocatore (tutt’altro che politico, dato che il riferimento era alla Casa di carta) non si è fatta certo attendere e si è presentata sotto forma di striscione: “Hysaj verme, la Lazio è fascista”. Punto.

Insomma, il discorso è tanto complesso quanto semplice: considerando una squadra come un insieme simbolico – arricchito da una sua storia, una sua epica e una sua vita presente – si può comprendere perché possa essere informata da una serie di valori teoricamente estranei al mondo del calcio. La politicizzazione di una tifoseria è possibile perché esistono delle fondamenta culturali insite nell’identità di una squadra. Non si tratta, ovviamente, di un rapporto causale scientificamente calcolabile, ma di un processo culturale determinato da una molteplicità di fattori.

La (coscienza) Nazionale

C’è un ultimo elemento da prendere in considerazione, il più delicato nonché il più inerente al tema della coscienza italiana: l’impatto minimo della Nazionale di calcio. Il più delicato anche perché, a fronte di certi dati (altissimo seguito in televisione e stadi spesso gremiti), non sembrerebbe presentarsi alcun problema. Per citare Giorgio Gaber nella celebre Io non mi sento italiano: “Mi scusi Presidente/Lo so che non gioite/Se il grido “Italia, Italia”/C’è solo alle partite/Ma un po’ per non morire/O forse un po’ per celia/Abbiam fatto l’Europa/Facciamo anche l’Italia”. Il problema è proprio il grido “Italia, Italia”, un grido quasi assente, un coro scoordinato e disertato. Le valutazioni, qui, cambiano punto di vista: mentre le prime due problematiche presentavano questioni culturali riflesse sul mondo del calcio, per comprendere meglio questo problema bisogna accettare le logiche proprie del calcio e dei suoi tifosi. Partendo quindi da presupposti interni al mondo calcistico, balza all’occhio la scarsa e spesso scarsissima partecipazione (specie se confrontata con il seguito delle squadre di club) che riscuotono le prestazioni degli Azzurri. Sembrerebbe esserci una forte cesura proprio fra pubblico della Nazionale e pubblico delle squadre di club: il tifoso è una categoria che non appartiene alla Nazionale, seguita perlopiù da non appassionati e spesso disprezzata dagli altri.

Insomma, anche in questo caso i fattori sono moltissimi e anche in questo caso siamo di fronte a un riflesso culturale sul mondo del calcio. Il tifo che contraddistingue la Nazionale italiana di calcio sembra esplicativo dell’assenza di una coscienza nazionale concreta, vissuta e percepita: la squadra di club spesso prevale sugli Azzurri, tifati con poco entusiasmo e quasi solamente quando si tratta di competizioni altamente rilevanti come Europei o Mondiali.

Forse uno dei guai dell’Italia è proprio questo: di avere per capitale una città sproporzionata, come nome e passato, alla modestia di un popolo che, quando grida Forza Roma!, allude soltanto a una squadra di calcio.

I. Montanelli, Storia di Roma
18 marzo: A Lisbon Story di Wim Wenders

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La città commissiona a Wenders un documentario su Lisbona. Ma può bastare un documentario per restituire tutt’intera una città? Quale altra via? Lisbon story è l‘articolazione di queste domande e si rivelerà esserne, al contempo, la risposta.

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