Viaggio in Italia: fotografare frammenti di un Paese

Viaggio in Italia: fotografare frammenti di un Paese

Viaggio in Italia: progetto fotografico del ‘84 di Luigi Ghirri affiancato dagli scritti di Gianni Celati.

Subito il titolo a ricordarci l’opera di Goethe e, per antonomasia, l’intera tradizione del Grand Tour. Si svela così il primo interlocutore del progetto. Ma, al contempo e soprattutto, la più generale consapevolezza che sempre “viaggio in Italia è viaggio dentro l’immagine”. Questo per dire: lo sguardo sull’Italia è sempre immaginario, sempre filtrato da una tradizione iconica che da secoli vuole dirci, in vario modo, cosa l’Italia sia. In questo contesto, uno dei più imponenti “ritratti mitici” dell’Italia è, appunto, quello ereditato dalla secolare tradizione del Grand Tour: antichità romana e classicismo rinascimentale. Si stava delineando, in quel frangente, la fisionomia di un turismo moderno nella penisola e con esso la necessità di una produzione d’immagine. Ne fecero da perno da un lato il gusto per il pittoresco e il bucolico, dall’altro la predilezione per il monumento. Tuttavia, se è vero che tutto questo si consolidò lungo il XVIII-XIX secolo in pittura, anche la fotografia del XX ne condivise (ereditandola) l’inclinazione fondamentale. Ci ritroviamo ora per le mani una cartolina: ma che altro raffigura se non ancora piazza San Marco (sempre sotto il solito scorcio), o qualche tranquillo pescatore sul molo – idillico folklore locale.

È un’immagine certa dell’Italia, tutta d’un pezzo, senza indecisioni, che cerca tenacemente d’incardinarsi sul grandioso od umile “c’era una volta”. L’arte era animata dalla certezza di un Paese che sapeva di edificare la propria identità su un terreno saldo. Vien da sé che il fascismo attinse abbondantemente a questo immaginario che, ciononostante, non capitolò con esso ma sopravvisse anche nel dopoguerra. “Così il mito della genuinità della campagna, delle antiche abitudini viene costruito, proprio quando l’Italia si avvia finalmente allo sviluppo industriale” degli anni ’50 -‘60.

Rispetto a tutto ciò, Ghirri e Celati hanno in mente un diverso panorama: l’Italia dei “margini”, dei “capolinea”, periferici, anche industriali. È, quindi, Viaggio in Italia un’arte che vuole essere per la propria epoca? Una documentazione di un mutamento sociale? In parte sì – in quanto esce da mitologie antiquarie – ma, ad uno sguardo più attento, no. Sono altri quelli che “cercano solo “le ragioni” del mondo, dunque prendono ogni immagine solo come apatica informazione sul funzionamento esterno”. Non c’è alcuna volontà documentaria, storica sociale politica, nessuna spiegazione da fornire; soltanto apparenze che si mostrano. “Parlando in quella lingua di grosse parole (sociologiche o altre) che spiegano tutto, diventa difficile accorgersi ogni tanto d’esser qui”. “Ad ogni epoca la sua arte” non nel senso di un nuovo soggetto fotografato, più moderno e attuale, piuttosto un nuovo presupposto dello sguardo – che è attirato, certamente, anche da nuovi e inediti soggetti.

Ecco arrivati al punto, tirando le fila di quanto detto. In una parola, Viaggio in Italia contrappone all’intero il frammento. La cartolina non ha esitazioni; il documentario sociale si regge su un sicuro senso del mondo. A questa immagine compatta, completa, totale dell’Italia, viene contrapposta una sghemba composizione di frammenti. Dell’Italia si vede la contraddittorietà, banalità quotidiana, che mai si riconcilia in un quadro d’insieme. “Da queste foto non si riesce a cavare nessuna generalizzazione del tipo: “cos’è l’Italia”. Sono solo cose che “sono là”, si fotografa il loro semplice apparire, disconnesso, che accade”. Un casale abbandonato, un silos di periferia, non certo la grande Italia romana. Raggiunta la consapevolezza che nel quotidiano abbiamo per le mani solo questi frammenti sparsi, cosa resterà mai da spiegare? Si tratta, piuttosto, di guardare, descrivere con una “passione per il mondo così com’è (non il mondo come dovrebbe essere per essere migliore o perfetto)”.

Ripulito lo sguardo dalla “caterva di valutazioni ideologiche, morali o di gusto, che cancellano l’esperienza del vedere”, cosa resta? Cosa ci si mostra? O, ancor meglio, come ci si mostra quel mondo che, pur sempre, già prima vedevamo? Apparenze casuali e sparse. Iniziamo da questo termine: “apparenza” – usatissimo da Ghirri e Celati. Racchiude un duplice significato: “ciò che si mostra” (appare, appunto), e dall’altro “finzione che nasconde qualcosa di più reale” (“è tutta apparenza!”). In Viaggio in Italia i due sensi si mischiano. Il nostro mondo, che ci si mostra, è finzione ed illusione. Sembra il classico tema della vita come sogno – prima orientale, poi spagnolo e portoghese – dove al sonno si contrappone la verità che dietro a questo si confonde. Ma quale verità si cela nell’Italia del ‘84? Nessuna. Viaggio in Italia ci mostra una realtà di apparenze mute, di superfici senza profondità, di finzioni senza verità retrostanti. “La commedia delle apparenze continua sempre là fuori”. Ci viene in soccorso la metafora barocca del mondo-teatro. Ma a differenza del ‘600 – dove dietro la finzione mondana c’era la realtà della morte e rinascita -, qui il teatro è preso alla lettera: questo, come il nostro mondo, è certamente una finzione, ma mai ci chiederemmo se il palcoscenico nasconda una realtà dietro a sé. Il mondo è messinscena, e, tuttavia, è tutto qui e soltanto questo. Soltanto questo spettacolo – finzione teatrale – al quale assistiamo. Nient’altro che “una trama di rapporti cerimoniali per tenere insieme qualcosa d’inconsistente […] l’astratto gioco del mondo”.

I margini del Bel paese ci hanno svelato che l’Italia tutta è questo nulla di fatto, nulla di eccezionale.

“A tratti le mosse degli altri sembrano pose per tenere in piedi una rappresentazione senza senso. Impressione d’un ordine vuoto che si ripete dovunque e per nessun motivo. Nelle metropoli tutti si aggrappano gli uni agli altri in amori soffocanti, per non sentirsi persi in quell’ordine vuoto che si ripete senza motivo. Qui [ai margini] c’è piuttosto il senso che le cose stiano così e basta, e non ci sia poi una gran differenza tra quella ripetizione perpetua e lo spuntar di arbusti a caso lungo una strada”.

Gianni Celati, Verso la foce

Sorge, infine, il problema della forma: in che modo rappresentarla, questa Italia – una sempliciona senza santi in paradiso? Nella “metropoli” è fiorito il grande romanzo di formazione, l’opera mondo che tutto comprende in sé. Nel grandioso incedere della sua trama ogni vicenda acquista un senso in virtù dell’essere una parte di un tutto, fino a giungere al finale, che assume tutto e a tutto dà coerenza. Periferie e campagne, di contro, non ne comprendono lessico e stilemi. Estranee alla retorica metropolitana tengono pragmatica fede a racconti orali e proverbi, che per loro natura non ambiscono a completa coerenza. Qui la forma è il frammento: sono le terre spaccate, i cretti incisi dalle aride estati sulle spiagge del Po. Fedeli a ciò, Ghirri e Celati, per così dire, al romanzo preferiscono il proverbio. Guardiamo per un attimo a Verso la foce di Celati: la sua forma è il diario. Non una casualità, piuttosto la meditata scelta per un ordine disorganico. Mantiene, il diario, la freschezza della materia viva, di una scrittura en plain air, al pari della fotografia. Parole impresse su carta, quasi fosse luce a stamparsi in aforismi visivi, riflessioni sparse, magari parziali o contraddittorie, ma che l’oggetto stesso richiede tali. Parlando di Verso la foce, Celati dice: “Non era letteratura, perché oggidì letteratura vuol dire romanzi, e ogni romanzo è oberato da una penosa storia […] In questo mestiere l’unica cosa che non sia fumo negli occhi sono i pezzi di roba sparsa da cui parti, dove giri intorno a qualcosa sempre in fieri, fatto di immagini e pensieri non ancora addomesticati”.

Concludendo. Se qui ho cercato anch’io di ricostruire il senso di alcunché, valgano come ammonimento e invito al concreto queste parole di Celati riguardo ai nostri quotidiani racconti orali: “ascoltare una voce che racconta fa bene, ti toglie dall’astrattezza di quando stai in casa credendo di aver capito qualcosa “in generale”. Si segue una voce, ed è come seguire gli argini d’un fiume dove scorre qualcosa che non può essere capito astrattamente”.

Bibliografia

Gianni Celati, Verso la foce, Feltrinelli, Milano, 1989

Gianni Celati, Quattro novelle sulle apparenze, Feltrinelli, Milano, 1987

Gianni Celati, Narratori delle pianure, Feltrinelli, Milano, 1985

Luigi Ghirri (a cura di), Viaggio in Italia, Il Quadrante, Alessandria, 1984

L’epopea degli emigrati italiani: coscienza e identità viste “da fuori”

L’epopea degli emigrati italiani: coscienza e identità viste “da fuori”

La coscienza italiana è nata a poco a poco, si è sviluppata intorno ad esperienze comuni come l’emigrazione e si è fortificata incontrandosi con l’altro quando gli italiani si sono trovati all’estero. A livello istituzionale, invece, lo Stato italiano ha avuto un ruolo ambiguo nel confrontarsi con l’esperienza dell’emigrazione e solo recentemente ha iniziato a riconoscere il fenomeno come parte dell’identità nazionale ufficiale. Partiamo da un presupposto: il rapporto tra italiani emigrati e Stato italiano fu sfumato e ambiguo. Sin dall’epoca liberale la fuga di milioni di italiani rappresentò un motivo di vergogna, dato che implicava una debolezza economica che le istituzioni non riuscivano a risolvere. Invece, secondo la studiosa Anna Cento Bull, gli emigrati potevano essere visti come “coloni” che invadevano i territori attraverso la loro cultura. Da qui, la promozione della cultura italiana da parte di associazioni, come la Società Dante Alighieri, fondata nel 1889.

A livello numerico, il fenomeno dell’emigrazione italiana assunse, dal 1870, dimensioni sempre più consistenti. Tra il 1876 e il 1901, in Francia la popolazione italiana raddoppiò (da 163.000 a 330.000), ma solo un quarto rimase alla vigilia della Prima Guerra Mondiale. Nel contesto americano, la portata dell’emigrazione italiana fu impressionante: tra il 1901 e il 1910 più di 2.300.000 italiani si spostarono negli USA, ma nuclei di dimensioni molto simili per numero si trasferirono in Canada, in Argentina e in Brasile.

Gli emigrati che partivano nella seconda metà del XIX secolo si sentivano molto più legati al proprio villaggio o alla propria regione, piuttosto che alla propria nazione. L’identità era quindi locale ed erede di una mentalità campanilistica. Giuseppe Prezzolini, nel suo diario, scriveva che gli emigranti avevano lasciato la patria prima ancora di diventare italiani. Le comunità all’estero erano infatti formate da emigrati provenienti dalla stessa regione, che parlavano lo stesso dialetto: Luigi Villani, agente consolare a New York, vedeva in una strada i siciliani, in un’altra i calabresi, in una terza via gli abruzzesi. Ognuno viveva autonomamente, mantenendo il proprio dialetto, i prodotti culinari e le proprie abitudini. E anche i pregiudizi verso le altre regioni. Rosa Cavalleri, un’emigrata lombarda che viveva a New York, classificava gerarchicamente le varie regioni: “Le persone provenienti dalla Toscana non sono brave come quelle che vengono dalla Lombardia. Ma non sono brutte quanto le persone della Sicilia […]. La Lombardia è l’ultima al mondo a fare cose sbagliate”. Aggiungeva anche che i siciliani non erano neanche italiani.

Chi non vedeva distinzioni tra queste comunità, e quindi non percepiva le differenze geografiche, linguistiche e culturali, erano le popolazioni autoctone: negli Stati Uniti, ad esempio, gli immigrati venivano considerati tutti italiani. Secondo molti storici, il sentimento nazionale è nato prima tra questi italiani emigrati rispetto a quelli in patria proprio per questo motivo. La designazione di italianità data dalle popolazioni autoctone alle comunità italiane, spesso per contrassegnarle in modo negativo, è stata un elemento di unificazione. Lo scoppio del primo conflitto mondiale fu il “vero stimolo alla conoscenza della patria” secondo Paola Corti, storica che si è occupata di emigrati italiani in Brasile. Molti, infatti, si arruolarono volontari per il proprio paese di origine. Lo fece Cesare Mainella, veneziano emigrato in Argentina nel 1912, che nel suo diario annotava: “Vivendo in questa atmosfera patriottica decisi assieme a Feltrin e tanti altri italiani di partire per l’Italia e partecipare alla cruenta lotta. Vedo ora che il gesto fu inutile ma allora eravamo tutti pieni di amor patrio”.

Un’altra fase fondamentale per lo sviluppo di una coscienza italiana fu il periodo tra le due guerre mondiali. In questo periodo gli emigrati italiani, dovendo confrontarsi con il medesimo fenomeno discriminatorio soprattutto negli ambienti di lavoro, iniziarono a sviluppare un’identità fondata sull’italianità. La comunicazione avveniva non più attraverso il dialetto ma con l’italiano, venne abbandonata l’endogamia interna alla comunità regionale, ci si aprì a sentimenti di lealtà nei confronti dei paesi di accoglienza. Questa identità si rafforzò, in termini nazionalistici, con l’avvento del regime fascista in Italia e i discorsi propagandistici di Mussolini. Paulo Pisicano, discendente di emigrati siciliani, affermava che per molti italo-americani Mussolini era “un eroe, un supereroe”. Massimo Salvadori, rifugiato antifascista in America, sosteneva che gli emigrati “in Italia non erano mai stati italiani, ma in America erano diventati nazionalisti italiani”. Emigrare dall’Italia in tempo di dittatura significava scoprire, per molte persone, altri ideali politici oltre a quelli proposti dal fascismo. In una parola, emigrando si poteva scoprire di essere antifascisti. E’ quello che è successo ad Anita, orfana di guerra che viveva con gli zii paterni a Nimes, in Francia. Scoprì la politica nel 1936 e decise di non supportare le feste del consolato italiano; si unì alla Resistenza francese nel 1943, convinta dal suo dentista. Con l’entrata in guerra dell’Italia fascista, l’odio anti-italiano riemerse e provocò, di nuovo, “l’antica vergogna di sentirsi italiani”. Il sentimento avverso agli italiani era più forte nei paesi direttamente coinvolti nella guerra, come la Francia. Qui c’erano molti emigrati, tra cui Teresa Boschin, cameriera friulana che lavorava a Parigi. Alle prese di mira dei colleghi, che la chiamavano “l’italienne” rispondeva dicendo: “No! Sono friulana! Austriaca per nascita, italiana dopo la guerra!”. E aggiungeva nel suo diario: “Devo dire però che solo in Francia mi resi conto che l’Italia [ha] dato i natali a tanti illustri personaggi. Infatti, visitando il Louvre mi accorsi che tutti i pittori più celebri erano italiani […]”.

Il flusso migratorio riprese nel secondo dopoguerra: furono ben 7 milioni gli italiani che partirono dal 1945 alla fine degli anni Sessanta. Una destinazione molto vantaggiosa fu l’Australia, grazie all’ambizioso programma del Ministro dell’Immigrazione Arthur Caldwell. In meno di vent’anni arrivarono 200 mila italiani, tra cui Maria Rosaria Marino, una donna che vive tuttora in uno degli stati dell’Australia, la Tasmania, e che ci ha concesso un’intervista:

Per me [l’Australia] è come una seconda mamma, perché la prima certamente è l’Italia, la seconda è l’Australia. Poi Campobasso, Campobasso è una ferita aperta. Sì, amo l’Australia, ma il paese che ho lasciato is always a wound e non guarisce mai. Quando sono arrivata in Australia avevo 16 anni, mi sentivo come quando perdi i genitori, sei orfana. Anche se ho una certa età non ti puoi dimenticare del dolore, è stato difficile partire.

Maria Rosaria Marino

Allo stesso tempo Maria Rosaria ci ha raccontato di come gli italiani abbiano in qualche modo esportato i loro modi di vivere in Australia, in particolar modo attraverso il cibo e il modo di vestire. L’identità italiana quindi usciva rafforzata dal confronto con l’altro: “Dovevi vedere come gli australiani si tagliavano i capelli, li rasavano come pecore. Allora questi tre fratelli [italiani] hanno aperto questo barbiere, gli italiani andavano lì e loro si che erano presentabili con i capelli. Poi, piano piano, anche gli australiani hanno iniziato ad andare. Così è cominciata: piano piano con il mangiare, piano piano con i capelli…”

La figura dell’italiano che porta il proprio mestiere all’estero è ricorrente, come nella storia della famiglia Bacchelli, che nel 1956 aprì la Trattoria Italia a Lima, in Perù. Utilizzarono le loro capacità culinarie non solo per soddisfare i clienti ma anche per pubblicizzare il proprio locale: “S’iniziò con la sfoglia fatta dalla signora sul tavolo quasi sulla porta d’ingresso: serviva per pubblicità. Si facevano tortellini e tagliatelle tanto col mattarello che con la macchinina, si facevano lasagne e tortelloni oltre che gnocchi e crescentine fritte”. Sono queste esperienze fatte dagli italiani in tutto il mondo ad aver creato l’immaginario del made in Italy, molto utilizzato in patria per promuovere i prodotti e il know how italiani.

L’Italia ha assorbito le immagini di sé che si generavano nella coscienza di chi si confrontava con gli italiani all’estero, non sempre riuscendo ad armonizzare aspetti contraddittori. Certamente, dalle testimonianze raccolte emerge che il senso di comunità nato fuori dall’Italia è forte e, soprattutto, vedere il proprio paese dall’esterno genera un senso di appartenenza a volte mancante agli italiani rimasti in patria. È importante anche notare come la coscienza italiana sia il risultato di un composito confronto con altre culture e modi di vivere. Nella coscienza italiana non ci sono elementi rigidi e fissi, proprio perchè i nostri connazionali sono stati mobili nel mondo e hanno creato esperienze diverse a seconda del contesto cui si sono incontrati e scontrati.

Espressione di tutto questo è la testimonianza di Corrado Celada, musicista emigrato in Argentina ma convinto dalla moglie a rientrare in patria:

Così, in un attimo, mi lasciai alle spalle tutto quello che ero riuscito a realizzare a Buenos Aires; tornavo in Italia con i miei portafortuna – il mandolino e la chitarra – . Lasciavo sì l’Argentina, ma di essa portavo con me tutto ciò che mi aveva arricchito, e soprattutto quell’affascinante miscuglio di popoli, razze, etnie e religioni (indios, ebrei , tedeschi, italiani, spagnoli,… ) solo apparentemente inconciliabili, che lì non solo convivevano ma anche costituivano la spina dorsale della nazione; ciò mi fece capire quanto privo di senso fosse – e tuttora sia – il tentativo di voler tener separate e distinte le diverse genti del mondo, quando queste costituiscono, inevitabilmente, l’unica società cui realmente tutti noi apparteniamo, quella umana.

Corrado Celada

Bibliografia

Coniugi Bacchelli, Trattoria Italia, Fondazione Archivio Diaristico Nazionale, 1956

Anita Biaia, Antifascista, Fondazione Archivio Diaristico Nazionale, 1936

Teresa Boschin, Je suis furlana, Fondazione Archivio Diaristico Nazionale, 1940

Corrado Celada, La solita Italia, Fondazione Archivio Diaristico Nazionale, 1953

Anna Cento Bull, Modern Italy: A very short introduction, Oxford University Press, New York, 2016.

Paola Corti, Identità nazionale, transnazionalismo e glocalismo tra gli Italiani all’estero, Labimi/UERJ, 2013

Stefano Luconi, The Impact of Italy’s Twentieth-Century Wars on Italian Americans’ Ethnic Identity, in “Nationalism and ethnic politics”, 2007

Cesare Mainella, Pieni di amor patrio, Fondazione Archivio Diaristico Nazionale, 1914

Gilles Pecout, Il lungo Risorgimento. La nascita dell’Italia contemporanea (1770-1922), Mondadori, Milano, 2011

Tragica e controvoglia: la ricerca di una riconciliazione nazionale

Tragica e controvoglia: la ricerca di una riconciliazione nazionale

Il tema della coscienza nazionale italiana è molto complesso. La storia d’Italia è contraddistinta da tante fratture che hanno segnato il processo di costruzione di un sentimento nazionale. In Tragico controvoglia. Studi e interventi 1968-2022 – antologia di scritti che racchiude oltre sessant’anni di attività intellettuale – lo storico veneziano Mario Isnenghi ne individua alcune: i fatti di Bronte del 1860, il ferimento di Garibaldi sull’Aspromonte nell’agosto del 1862 e la breccia di Porta Pia del 20 settembre del 1870. A questi si aggiungono altri più tragici e destinati ad avere un impatto più duraturo nella memoria collettiva: la lotta al brigantaggio, Caporetto e la guerra civile del 1943-’45. Secondo Isnenghi, la storia italiana è intimamente tragica e puntellata da eventi fondatori traumatici. Nel dibattito pubblico, ancora oggi, questi sono fonte di accese discussioni e rinsaldano vecchie inimicizie. Gli anni passano, ma i vecchi rancori restano. Dal Regno alla Repubblica, l’Italia è stata lacerata da antagonismi e tensioni fra parti e controparti. La riconciliazione – sostiene Isnenghi – non dovrebbe essere con gli altri, ma con una storia d’Italia di cui gli altri fanno parte. Questa posizione è ampiamente condivisibile, ma apre molti interrogativi: da chi deve partire questo processo di riconciliazione? Chi si deve fare carico di questo: devono essere gli storici a occuparsene o è una faccenda che riguarda prettamente la politica?

Ricomporre le fratture provocate da un episodio tragico non è affatto facile. La tragedia, come ci spiegano i greci e gli studiosi delle tragedie greche, si dà quando due parti che si contrastano hanno entrambe ragione. La tragedia si verifica, dunque, quando lo scontro fra due polarità è incomponibile. Un esempio è la vicenda narrata nell’Antigone di Sofocle. Il nuove re di Tebe Creonte ordina con un editto che il corpo di Polinice, considerato un traditore, rimanga insepolto. Ma la sorella Antigone disobbedisce al decreto del re tebano per dare degna sepoltura alle spoglie del fratello, appellandosi alle leggi divine che impongono pietà per i morti. Il gesto coraggioso di Antigone sfida il potere di Creonte che non vuole concedere la sepoltura per motivi politici. Alle ragioni più evidenti della giovane Antigone, spinta nel suo nobile atto da motivazioni affettive e religiose, ci sono quelle meno evidenti, ma non meno importanti, di Creonte. La città e lo Stato hanno le loro prerogative, non a caso Hegel, a inizio Ottocento, vide dietro questo contrasto tra la giovane eroina e il re di Tebe il conflitto tra le esigenze della famiglia e quelle dello Stato.

Un’altra vicenda esemplare che riconduce al significato primigenio e più drammatico della tragedia è rappresentata dai fatti di Aspromonte. Siamo nel 1862, l’Italia è unita da solo un anno e hanno vinto i monarchici. Questi vorrebbero mettere idealmente fuori legge i repubblicani, i quali però hanno pensato l’Italia. L’Italia, è bene ricordarlo, è figlia di Mazzini e Garibaldi. Se il primo fu la mente dell’unificazione nazionale, il secondo fu l’uomo d’azione che la realizzò. A capo di qualche migliaio di volontari, l’eroe dei due mondi partì alla volta di Roma per scacciare Pio IX e annettere la città alla neonata nazione. Contro di lui e le sue truppe si mosse l’esercito regolare italiano, inviato dall’allora Presidente del consiglio Urbano Rattazzi. L’esercito del Paese che aveva fondato sparò a Garibaldi, che venne ferito ad una gamba e fatto prigioniero. Ci si potrebbe chiedere: potevano evitare di sparargli? Forse sì, ma il governo italiano voleva prevenire una possibile reazione da parte della Francia, che aveva impegnato truppe a difesa di Roma in accordo con il Papa. Questo portò allo scontro in Aspromonte, dove le forze italiane, nonostante Garibaldi fosse un eroe nazionale, aprirono il fuoco sulla sua colonna di volontari.

Questo episodio provocò una spaccatura significativa nella coscienza nazionale italiana. A pochi mesi dall’unità del Paese, due parti dello stesso si confrontarono armi alla mano. Lo stesso avvenne, ma in modo molto più lungo e cruento, tra il ’43-’45 durante la lotta di liberazione: fascisti da una parte e antifascisti dall’altra. La guerra che si combatté in quegli anni fu una vera e propria guerra civile, che vide contrapposti da ambo i lati degli italiani. Le violenze e le atrocità che si verificarono sono rimaste impresse nella memoria collettiva. Il dolore scaturito da eventi traumatici crea ferite che sono dure a rimarginarsi. Di questo ne era ben consapevole Nathaniel Hawthorne che nel suo celeberrimo testo La lettera scarlatta scrisse: “è insito nella nostra natura un dono meraviglioso e misericordioso, grazie al quale non comprendiamo sul momento l’intensità di quanto soffriamo, ma lo possiamo valutare solo più tardi, dalle tracce che la sofferenza lascia”.

La sanguinose contrapposizioni interne che hanno caratterizzato la storia d’Italia hanno provocato delle ampie fratture nel tessuto sociale nazionale. In modo particolare la guerra civile del ’43-’45 ha lasciato il segno più evidente e ancora oggi torna a far parlare di sé. La politica, lungi dal perseguire un programma di pacificazione, utilizza questa ferita ancora sanguinante per rinnovare la polemica. Dopo tanti anni di contrasti serve arrivare a una riconciliazione, ma pensare a chi può davvero operarla è cosa difficile a dirsi. Quando nella coscienza d’individuo si verificano degli eventi traumatici, spesso il singolo si affida a un percorso di terapia per affrontare e risolvere le lacerazioni lasciate dagli eventi dolorosi. Ma quando si guarda a una coscienza collettiva, chi può davvero offrire gli strumenti per riconciliare una storia conflittuale e tormentata?

La risposta non è semplice e sicuramente non può essere univoca. Allo stesso tempo, però, se non è così immediato individuare chi possa compiere questo lavoro, può essere più efficace comprendere chi potrebbe contribuire al suo perseguimento. Le figure più adatte possono essere gli storici. Per quale motivo? Perché lo storico è la figura che più di tutte ha una cognizione approfondita del passato e può, con la sua conoscenza, giocare un ruolo determinante nel raggiungere una riconciliazione tra le parti. Partendo dal presupposto che lo storico deve essere superpartes e nel proprio compito deve sempre essere interessato alla verità dei fatti, esso nondimeno può contribuire a dare avvio a una presa di consapevolezza e, di conseguenza, a un riconoscimento della conflittualità e tragicità della storia del Paese. Questa azione dello storico, che si può definire enzimatica, deve essere proseguita dalle istituzioni al fine di arrivare, una volta per tutte, a una vera riconciliazione che – come spiega Isnenghi – “non è con gli altri, ma con una storia d’Italia di cui gli altri fanno parte”. Sì, perché la storia italiana dal Regno alla Repubblica è fatta di parti e controparti che sono state protagoniste di molteplici tensioni e antagonismi. Se non si fa questo, il rischio – avverte Isnenghi – è quello di “rendere senza significato anche quella parte della storia collettiva di cui, sul piano personale, ciascuno di noi può maggiormente sentirsi discendente o parte”.

Lo spunto per questa riflessione sorge da un’osservazione del tempo presente, dove il dibattito politico è ancora infiammato dalle polemiche su queste vicende. In modo particolare la questione fascismo e antifascismo scalda gli animi e genera profonde tensioni. Questo dimostra come la situazione sia lontana dall’essere risolta. L’unico modo per riappacificarsi con quel periodo tragico sta nella volontà collettiva di comprendere quei tempi e le scelte dei suoi protagonisti. La tragicità di quello scontro, che vide contrapporsi italiani contro altri italiani, stava proprio in questo suo carattere di conflitto interno. Pur rimanendo un contrasto fondativo della nostra identità nazionale, dopo tutti questi anni serve riconciliarsi con questa storia conflittuale. L’unico strumento che può davvero tornare utile è la memoria. Strumento meno accomandante dell’oblio, questa permette di ricollegarsi con quei fatti e capire le ragioni che hanno portato molti cittadini fascisti e antifascisti a sostenere una causa piuttosto che un’altra. Se non c’è comprensione, c’è giudizio, e il giudizio divide e allontana. Per cogliere meglio il significato di una storia collettiva così dolorosa, serve guardare con occhi lucidi al passato. Una vera e propria riconciliazione nazionale può partire solo da una consapevolezza precisa di cosa è successo, senza rimozioni, edulcorazioni e giudizi.

Bibliografia

Mario Isnenghi, Tragico controvoglia: studi e interventi 1968-2022, Dueville, Ronzani, 2023

Claudio Pavone, Una guerra civile: saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1994.

L’italia nel pallone. La coscienza calcistica del Belpaese

L’italia nel pallone. La coscienza calcistica del Belpaese

Lo sport più popolare del mondo, “l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo”, come scrive Pasolini, la fa da padrone anche in Italia. Nel ricco bacino di citazioni riguardanti l’importanza del calcio nel Belpaese, una delle più abusate è quella – erroneamente – attribuita a Winston Churchill, una sentenza pregna di sarcasmo e supponenza tipicamente british: “Italians lose wars as if they were football matches, and football matches as if they were wars”. Questa citazione si inserisce in un discorso tanto ampio quanto banale: il calcio, in Italia, è importantissimo. Lo sappiamo tutti e, soprattutto, lo diciamo tutti, sia per criticare l’importanza e l’influenza di un semplice sport sulle sorti e sugli umori di una nazione intera, sia per rivendicare fieramente una passione sportiva. Tutti parliamo di calcio e siamo in grado di riconoscere quanto influisca sulla nostra cultura nazionale: che siano il Milan di Berlusconi, i Mondiali del 2006, Calciopoli o gli episodi di razzismo, l’elenco potrebbe non finire mai. Nel discorso pubblico, però, il calcio raramente viene riconosciuto come un fenomeno intessuto nella trama culturale italiana e quindi in grado di riflettere perfettamente degli aspetti che vanno ben oltre il semplice ambito sportivo. Perché il calcio influenza, sì, ma soprattutto è influenzato.

Lo scopo di questo articolo non è quindi difendere lo statuto culturale del calcio, ampiamente riconosciuto dai più, né ricordare per l’ennesima volta quanto sia influente. Piuttosto, l’intento è quello di ribaltare la narrazione del nesso fra calcio e cultura e propugnare una visione dello stesso come una sfera della quotidianità in cui la nostra coscienza nazionale (storica e socio-economica) si riflette. I riverberi della storia e della cultura italiana nel calcio sono molteplici e, fra tutti, questo articolo ne prende in considerazione due: le rivalità cittadine e l’identificazione politico-sociale. Entrambi sono inevitabilmente legati alla percezione del calcio da parte del pubblico e, soprattutto, delle tifoserie.

Rivalità cittadine: Bergamo e Brescia, Pisa e Livorno

Cominciamo dal primo: tantissime rivalità campanilistiche (l’elenco è interminabile) sono un perfetto esempio degli spettri culturali, storici e sociali che infestano il mondo del calcio. Molte di queste sono motivate più storicamente che calcisticamente e nel calcio trovano semplicemente possibilità di espressione superiori a molti altri ambiti. Nello specifico, la rivalità fra Bergamo e Brescia affonda le sue radici nel Basso Medioevo, quando “una rabbiosa e terribile guerra” (scrive Federico Odorici nelle sue Storie bresciane) viene combattuta sulle sponde dell’Oglio, teatro della battaglia di Palosco (1156) e di quella di Rudiano (1191). Le motivazioni, forse da ricondurre a dispute territoriali, sono decisamente poco chiare, mentre è evidente quanto questa avversione reciproca sia tuttora un fattore rilevante nel rapporto fra Bergamo e Brescia. Novecento anni dopo, la rivalità ha cambiato modalità d’espressione in maniera coerente con i mutamenti culturali ed etici, diminuendo di intensità pur senza dare segni di cedimento: l’antagonismo medievale e comunale perdura – in forma sublimata – nel derby Atalanta-Brescia. Gli eserciti comunali hanno lasciato spazio alle fazioni ultras e agli sfottò, dando vita a momenti iconici della storia recente del calcio italiano come, nel 2001, la corsa di Carlo Mazzone, allenatore del Brescia, sotto la curva dell’Atalanta.

Altrettanto celebre e longeva è un’altra rivalità cittadina, quella fra Livorno e Pisa, formatasi dal XIII secolo mentre la repubblica marinara di Pisa comincia il suo declino e il porto di Livorno cresce di importanza, minacciando gli interessi pisani. Centrale, nella storia della Repubblica di Pisa e nella rivalità con Livorno, è il rapporto con Genova: inizialmente alleate, le due repubbliche si scontrano fino alla sanguinosa battaglia navale della Meloria (1284), al largo del porto di Livorno, per poi riappacificarsi mezzo secolo più tardi; l’accordo viene tradito dai genovesi nel 1406, quando aiutano Firenze a prendere possesso di Pisa. Inutile dire che la rivalità fra Pisa e Livorno si è mantenuta, se non addirittura amplificata, fino ai giorni nostri: benché si presenti perlopiù in forma di scherno, quando si tratta di calcio questo antagonismo intra-toscano sa diventare decisamente violento. Ma mediante il calcio si è mantenuto anche il complesso rapporto con Genova: le tifoserie nerazzurra (Pisa) e rossoblù (Genoa) sono state a lungo unite da un forte gemellaggio, interrottosi nel 2003 proprio a causa degli ultras livornesi. Alla curva pisana, infatti, non erano andati giù alcuni incontri fra ultras genoani e ultras livornesi: in un messaggio ufficiale, il tifo organizzato pisano ha posto fine al gemellaggio a causa di questo “comportamento scorretto”: “Un gemellaggio si basa sul rispetto reciproco ed è proprio il rispetto che è venuto a mancare”, si legge. Insomma, un eterno ritorno su cui diversi filosofi avrebbero molto da dire, così come su molte altre rivalità in Toscana dai connotati decisamente medievali: la sentitissima partita fra Fiorentina e Siena viene talvolta definita derby guelfi-ghibellini; quello fra Grosseto e Siena è invece il derby delle saline, riferimento a conflitti fra i due comuni fra il XII e il XIV secolo.

Il fatto che queste e altre rivalità calcistiche italiane riprendano elementi di un passato anche lontano, di per sé, non prova nulla. Una motivazione potrebbe risiedere nell’esistenza di una coscienza storica, tanto locale quanto nazionale, che si manifesta ove possibile. Oppure, più semplicemente, le motivazioni che hanno spinto determinati comuni a scontrarsi – vicinanza, divergenze di interessi territoriali – potrebbero essere le stesse che portano due tifoserie a sviluppare una reciproca avversione. Sicuramente, sono molti i leitmotiv della storia italiana che si manifestano nel nostro modo di vivere il pallone.

L’identificazione simbolica

Essere tifosi significa partecipare di una rappresentazione altra e alta, che va oltre alla semplice collettività: tifare una squadra impone di relazionarsi a un insieme simbolico a tutti gli effetti, composto da elementi che sono da sempre imprescindibili nella costituzione culturale di un gruppo; fra questi, l’esistenza di un’epica specifica costituisce un elemento centrale nell’identificazione. In che senso un’epica? Nel senso che ogni squadra – e quindi ogni tifoseria – possiede una sua storia, declinata in senso mitologico: quasi sempre, si parte da un mito fondativo da cui derivano dei valori simbolici che finiscono per appartenere alla totalità di una tifoseria; esistono poi diversi miti disseminati lungo la storia della squadra che fungono da riferimento costante, in senso positivo o in senso negativo (il Milan degli olandesi, la Grande Inter di Herrera, la Juventus del Quinquennio e così via). Il mito fondativo è dotato di una sua rilevanza soprattutto in caso delle suddette rivalità stracittadine: i milanisti rivendicano di essere nati prima dell’Inter, così come i laziali prima della Roma, sfottendo i romanisti per essere nati da una fusione.

La narrazione mitologica propria di una squadra ne determina anche l’aspetto valoriale e quindi il processo di identificazione che stabilisce il perché io tifo. Fra gli infiniti esempi, prendiamone un paio, cominciando dalla Lazio, da sempre inequivocabilmente fascista. Ma perché la Lazio è fascista? Non perché non esistano tifosi laziali non fascisti, ma perché esistono pochi riferimenti della mitologia laziale che non lo siano. Per capire meglio si può guardare l’Inter, un’altra grande squadra il cui tifo organizzato si è a lungo identificato nei movimenti di estrema destra. L’Inter non è fascista, perché la sua storia – la sua mitologia – è ricca di riferimenti perfettamente distaccabili dal fascismo: nasce con il nome di “Internazionale” perché lo scopo era includere anche giocatori stranieri; fra gli “eroi” dell’Inter (Peppino Prisco, Boninsegna, Zanetti, Bergomi e così via) è difficile trovare figure accostabili all’estrema destra; potremmo andare avanti all’infinito. Dall’altra parte, è difficile non percepire la Lazio come fascista: il suo simbolo è da sempre l’aquila, il suo tifo organizzato si è sempre fortemente identificato nell’estrema destra; ma soprattutto, la sua mitologia è disseminata di riferimenti del genere, basti pensare a figure come Paolo Di Canio, Senad Lulić o Ștefan Radu, leggende laziali spesso protagoniste di controversie politiche. Un episodio esemplificativo da questo punto di vista è accaduto nel luglio 2021, quando un neoacquisto della Lazio, il terzino albanese Elseid Hysaj, ha deciso di cantare Bella Ciao alla cena di squadra. La risposta lapidaria degli ultras laziali al gesto del giocatore (tutt’altro che politico, dato che il riferimento era alla Casa di carta) non si è fatta certo attendere e si è presentata sotto forma di striscione: “Hysaj verme, la Lazio è fascista”. Punto.

Insomma, il discorso è tanto complesso quanto semplice: considerando una squadra come un insieme simbolico – arricchito da una sua storia, una sua epica e una sua vita presente – si può comprendere perché possa essere informata da una serie di valori teoricamente estranei al mondo del calcio. La politicizzazione di una tifoseria è possibile perché esistono delle fondamenta culturali insite nell’identità di una squadra. Non si tratta, ovviamente, di un rapporto causale scientificamente calcolabile, ma di un processo culturale determinato da una molteplicità di fattori.

La (coscienza) Nazionale

C’è un ultimo elemento da prendere in considerazione, il più delicato nonché il più inerente al tema della coscienza italiana: l’impatto minimo della Nazionale di calcio. Il più delicato anche perché, a fronte di certi dati (altissimo seguito in televisione e stadi spesso gremiti), non sembrerebbe presentarsi alcun problema. Per citare Giorgio Gaber nella celebre Io non mi sento italiano: “Mi scusi Presidente/Lo so che non gioite/Se il grido “Italia, Italia”/C’è solo alle partite/Ma un po’ per non morire/O forse un po’ per celia/Abbiam fatto l’Europa/Facciamo anche l’Italia”. Il problema è proprio il grido “Italia, Italia”, un grido quasi assente, un coro scoordinato e disertato. Le valutazioni, qui, cambiano punto di vista: mentre le prime due problematiche presentavano questioni culturali riflesse sul mondo del calcio, per comprendere meglio questo problema bisogna accettare le logiche proprie del calcio e dei suoi tifosi. Partendo quindi da presupposti interni al mondo calcistico, balza all’occhio la scarsa e spesso scarsissima partecipazione (specie se confrontata con il seguito delle squadre di club) che riscuotono le prestazioni degli Azzurri. Sembrerebbe esserci una forte cesura proprio fra pubblico della Nazionale e pubblico delle squadre di club: il tifoso è una categoria che non appartiene alla Nazionale, seguita perlopiù da non appassionati e spesso disprezzata dagli altri.

Insomma, anche in questo caso i fattori sono moltissimi e anche in questo caso siamo di fronte a un riflesso culturale sul mondo del calcio. Il tifo che contraddistingue la Nazionale italiana di calcio sembra esplicativo dell’assenza di una coscienza nazionale concreta, vissuta e percepita: la squadra di club spesso prevale sugli Azzurri, tifati con poco entusiasmo e quasi solamente quando si tratta di competizioni altamente rilevanti come Europei o Mondiali.

Forse uno dei guai dell’Italia è proprio questo: di avere per capitale una città sproporzionata, come nome e passato, alla modestia di un popolo che, quando grida Forza Roma!, allude soltanto a una squadra di calcio.

I. Montanelli, Storia di Roma
Fare gli italiani: Pedagogia nazionale e beni culturali

Fare gli italiani: Pedagogia nazionale e beni culturali

La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.

Costituzione della Repubblica Italiana, Art. 9

La questione della tutela e della valorizzazione dei beni culturali del nostro Paese occupa un posto di primaria importanza fin dalla stesura della nostra Costituzione, tanto da trovarsi proprio tra i suoi principi fondamentali, quasi un unicum tra le carte costituzionali europee. Già dalle poche righe di questo articolo e dalle parole accuratamente scelte si possono ricavare importanti informazioni: il termine Repubblica indica che il ruolo di promozione e di tutela coinvolge e responsabilizza qualsiasi istituzione della Repubblica, dunque non solo lo Stato, le province e gli enti pubblici, ma anche le organizzazioni private e soprattutto gli stessi cittadini, i quali vengono direttamente coinvolti nel ruolo di promotori dello stesso patrimonio artistico. Altro termine interessante da analizzare è Nazione. Definire il patrimonio storico e artistico come proprietà di quest’ultima connota un forte carattere identitario a prescindere dalla forma di governo e dalle limitazioni territoriali: i beni culturali nazionali, in base alla legge italiana, non cessano di far parte del nostro patrimonio quando si trovano all’estero.

Ad essere coscienti di tale ruolo di primaria importanza giocato dal patrimonio artistico italiano, simbolo di una comune coscienza nazionale, non sono stati solo i Padri Costituenti. Infatti, fin dalla fondazione del Regno d’Italia nel 1861, si pensò a come porre il patrimonio artistico sotto il controllo di un’autorità centrale a cui fosse affidata la cura e il restauro dei monumenti e, contemporaneamente, si cercò di portare sotto l’egida statale oggetti di interesse comune che, fino a quel momento, erano rimasti nell’ambito della proprietà privata. L’intento, dunque, era quello di sviluppare una comune coscienza nazionale attraverso una progettualità identitaria nel processo di valorizzazione e tutela del patrimonio artistico. In tal senso vennero presi una serie di provvedimenti: in Emilia Romagna, il governatore provvisorio delle ex Legazioni pontificie Luigi Carlo Farini istituì nel 1860, in accordo con il Ministro dell’Istruzione Pubblica Antonio Montanari, la Regia Deputazione di Storia Patria per le Province di Romagna. Lo scopo era quello di dare rilevanza pubblica e di registrare ufficialmente quei luoghi “ove esistono le raccolte di antichi documenti” e scegliere quelli che “possono concorrere ad illustrare la Storia Patria”, cioè quelli che hanno valore di bene culturale. Tali interventi costituiscono il nucleo fondante dei Musei dell’Emilia-Romagna.

Per il neonato Regno i monumenti nazionali furono un importante strumento propagandistico per l’affermazione del potere laico su quello ecclesiastico (dotato di un patrimonio culturale e artistico con cui era difficile competere) tanto che con un decreto del 1873 fu concesso allo Stato anche il diritto di espropriazione di edifici religiosi per scavi archeologici. Uno dei personaggi che più si occupò di esercitare il controllo dello Stato sui monumenti storici fu Cesare Correnti, ministro della Pubblica istruzione. Su sua iniziativa furono presi una serie di provvedimenti in questa direzione, come, ad esempio, la compilazione di una lista di monumenti da dichiarare nazionali, e che quindi furono acquisiti dallo Stato. Furono principalmente due gli immaginari su cui l’Italia postunitaria tentò di proiettare il patriottismo degli italiani: in un primo momento la memoria dei martiri della libertà italiana, rappresentata in tantissimi e diversi monumenti, successivamente l’antica Roma.

Le missioni archeologiche italiane in Libia di inizio Novecento si accompagnarono a una nuova assimilazione retorica dell’Italia con Roma, che servì a preparare il terreno per la conquista militare e politica della regione: i primi archeologi italiani, sotto la direzione di Federico Halberr, arrivarono in Libia già nel 1910, per ritirarsi dalla regione proco prima dello sbarco delle truppe italiane nel 1911. Questa nuova definizione dell’italianità, portata avanti soprattutto dai nazionalisti guidati da Enrico Corradini, si contrapponeva con le posizioni dei futuristi, capeggiati da Filippo Tommaso Marinetti, che nel loro manifesto, pubblicato nel 1909, avevano affermato: “vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di professori, d’archeologi, di ciceroni e d’antiquari”. Nonostante le posizioni dei futuristi, però, la guerra italo-turca del 1911-1912 aprì una nuova stagione in cui le sorti dell’archeologia si sovrapposero a quelle della colonizzazione. Durante questo periodo, l’antico contribuì al processo di legittimazione della conquista militare e, contemporaneamente, favorì una nuova sensibilità dell’opinione pubblica in patria nei confronti delle vestigia romane e consacrò in una dimensione mitica la brutalità del contesto bellico. La nuova definizione della coscienza italiana si realizzò attraverso una narrazione del mondo arabo basata su cliché dell’orientalismo e contrapposta a un mondo romano visto invece come portatore di creatività e ingegno. Il progetto politico della Libia si intrecciava così ad una presunta liberazione delle vestigia antiche, che, secondo i colonizzatori, portavano i segni di un lungo disinteresse da parte dell’Impero Ottomano.

Dopo la marcia su Roma del 1922, l’atteggiamento corradiniano nei confronti dell’antico venne ereditato dal fascismo, che adottò la romanità come modello con cui confrontarsi sia in patria che nelle colonie. In Italia, le campagne di scavo e di restauro condotte nell’Urbe riportarono alla luce un patrimonio simbolico e ideologico antico cui dare nuovi significati. Nelle colonie, la pervasività dell’archeologia nel supportare il progetto mussoliniano, ai fini di rigenerazione della coscienza nazionale italiana, si giocò sull’ideale della sempiterna pax romana. Roma si sostituì ad Atene come custode della civiltà europea, mentre la trasmissione della cultura latina, nuovamente illuminata dal fascismo, fu il mezzo attraverso il quale realizzare questo passaggio di testimone.

La musealizzazione delle antichità fu parte integrante di questo processo, come spiegò il soprintendente ai monumenti e scavi di Rodi Luciano Laurenzi in occasione della presentazione dell’attività svolta dall’Istituto storico-archeologico FERT nel 1934: “se si vuol dare ad un popolo la coscienza della sua civiltà è necessario mostrargli i monumenti che l’hanno creata, le testimonianze delle lotte sostenute per conquistarla”. A questo contribuirono non solo mostre e musei, ma anche l’uso massiccio di nuove tecnologie come la fotografia, che sovente immortalava soldati e vestigia, creando una forte connessione tra il passato e il presente.

Alla nuova coscienza italiana fascista, dunque, contribuì largamente l’archeologia, in quanto offrì al regime un patrimonio culturale che permise la mitizzazione del passato e accrebbe la contrapposizione con l’altro e, allo stesso tempo, fornì spazi e momenti opportuni per la diffusione della nuova italianità al grande pubblico.

Il fil rouge che lega i tre periodi storici – quello dell’età liberale, dell’Italia fascista e del secondo dopoguerra – è la formazione, fittizia o meno, di una coscienza italiana che passa anche attraverso il riconoscimento e la tutela dei beni culturali. Il passato sembra quindi conoscibile solamente attraverso una narrazione che deve essere priva di revisionismi e avvicinarsi quanto più possibile alla realtà storica. Solo così può crearsi un legame virtuoso e felice tra la storia di un territorio e i suoi abitanti e un riconoscimento individuale e collettivo di chi siamo stati e di chi saremo.

Bibliografia

Enrico Bottrigari, Cronaca di Bologna, vol. III, a cura di Aldo Berselli, Zanichelli, Bologna, 1960-1962

Marcello Barbanera, Il sorgere dell’archeologia in Italia nella seconda metà dell’Ottocento. In: Mélanges de l’Écolefrançaise de Rome. Italie et Méditerranée, tome 113, n°2. 2001. Antiquités, archéologie et construction nationale au XIXe siècle. Journées d’études, Rome 29-30 avril 1999 et Ravello 7-8 avril 2000. pp. 493-505

Cristiana Morigi Govi, Giuseppe Sassatelli, Daniele Vitali, Scavi archeologici e musei. Bologna tra coscienza civica e identità nazionale. In: Mélanges de l’École française de Rome. Italie et Méditerranée, tome 113, n°2. 2001. Antiquités, archéologie et construction nationale au XIX e siècle. Journées d’études, Rome 29-30 avril 1999 et Ravello 7-8 avril 2000. pp. 665-678

Massimiliano Munzi, L’epica del ritorno. Archeologia e politica nella Tripolitania italiana, L’Erma di Bretschneider, Roma, 2001

Marta Petricioli, Archeologia e Mare Nostrum. Le missioni archeologiche nella politica mediterranea dell’Italia 1898/1943, Valerio Levi Editore, Roma, 1990

Simona Troilo, Pietre d’oltremare. Scavare, conservare, immaginare l’Impero (1899-1940), Laterza, Bari, 2021

Simona Troilo, Ruines de Libye. Le regard sur les antiquités dans la propagande coloniale italienne (1911-1937), in “Revue d’histoire culturelle, n.6, 2023, pp 1-23

Dov’è finita la filosofia in Italia?

Dov’è finita la filosofia in Italia?

La filosofia è al centro del programma di studi dei licei italiani. Ciò è vero, ma determinare cosa significhi è meno semplice. Qual è, oggi, il ruolo della filosofia nella formazione educativa degli studenti liceali italiani? È possibile parlare del tema senza presupporre un giudizio di valore, sbilanciato dalla parte di chi la filosofia già la conosce? Poiché il problema riguarda anche questo.

In Italia, le direttive ministeriali per l’istruzione nei licei individuano nella filosofia un cardine dell’insegnamento del triennio, qualunque sia l’indirizzo specifico scelto dallo studente: al pari della lingua italiana, della storia, della matematica, della fisica, la filosofia è sempre presente. Eppure, giunto ormai vicino alla laurea triennale in Filosofia, mi interrogo sul valore di quanto mi ha insegnato il liceo e sull’urgenza di quanto, invece, avrebbe potuto insegnarmi.

Vi è qualcosa che non funziona, profondamente, nel modo in cui, oggi, la filosofia viene insegnata. La tradizione storiografica è particolarmente forte nel nostro paese, il che, per lo studente universitario, è uno strumento prezioso, poiché essa permette di acquisire una coscienza profonda della complessità delle tematiche filosofiche e così, auspicabilmente, cura nel coglierne le distinzioni tecniche. Tuttavia, è lecito chiedersi se il metodo storiografico sia egualmente il più adeguato a introdurre ex novo alla materia, soprattutto se si vuole fronteggiare onestamente il fatto che quanto evocato in ex-liceali dal ricordo di Hegel, di Platone o di Locke sia normalmente un senso di stranezza e bizzarria. Massimo Mugnai, in un recente libro intitolato eloquentemente Come non insegnare la filosofia, riassume quello che un po’ noi tutti conserviamo dei nostri filosofici studi: “si passa in fretta da quel tale che crede nel mondo delle idee a quello dell’io penso, a quell’altro che crede ci siano le monadi, a quello della dialettica ‘tesi-antitesi-sintesi’, a quell’altro che dice che senza Dio tutto è permesso, a quell’altro ancora che ha scoperto il predominio della tecnica… ecc. ecc., in un succedersi senza fine di frasi fatte”.

Gli obiettivi del Ministero sono giustamente ambiziosi e rappresentano una concezione del sapere umanistica, valorizzante l’individuo, il cittadino e la società; vi si ritrova un’idea di cittadinanza in cui la cultura gioca un ruolo fondante ed ha un valore in sé. Ma l’autonomia valoriale della cultura significa qualcosa agli occhi di un quindicenne? Perché diamo per scontato che così dovrebbe essere? Jonathan Barnes, per anni professore a Oxford, scrisse in una postfazione all’Ideografia di Gottlob Frege (il padre della logica matematica) che il motivo per cui studiare logica è che essa è un bene in sé, ragione equiparabile a quella per cui ci piace andare in campagna o gustare una coppa di champagne. Ora, io non credo che le cose stiano esattamente così e per comprendere perché la logica, o la filosofia, siano un bene in sé bisogna, esattamente, avere già le motivazioni per leggere di logica o di filosofia. Il paragone può apparire forzato ma un ragazzo, probabilmente, può capire da solo perché è bella la campagna e non perché l’Ideografia (un tentativo di costruzione di un linguaggio del pensiero ispirato all’aritmetica) è affascinante. I nostri licei non introducono alla filosofia, bensì la spiegano come se fosse già chiara agli occhi degli studenti. Per questo io credo che la realizzazione degli obiettivi formativi sia ambigua – sia nei dettagli teorici che nella realizzazione pratica – e, di conseguenza, che essa sia capace di generare effetti contrari a quelli auspicati.

In Italia, l’insegnamento della filosofia nei licei è regolamentato, principalmente, dal decreto 89 del 15 marzo 2010 e dal decreto 211 del 7 ottobre dello stesso anno. È soprattutto questo secondo, contenente le linee guida per le specifiche materie, a indicare gli obiettivi generali dell’insegnamento filosofico nel secondo biennio e nel quinto anno (triennio). Il decreto differenzia le direttive per indirizzo: poiché quelle qui di interesse rimangono omogeneamente invariate, non verrà fatta distinzione circa questo punto. È importante tenere a mente, inoltre, che la filosofia è prevista esclusivamente negli indirizzi liceali.

Se il preambolo generale (si veda l’allegato A) del decreto 211 è incoraggiante e ricorda come la scuola non debba mai essere nozionismo, sottolineando l’importanza di far comprendere ciò che viene insegnato, invece, a consultare i provvedimenti specifici circa la filosofia, emergono i primi dubbi. Al triennio, il piano didattico riguarda l’intera storia della filosofia occidentale, dai presocratici ai giorni nostri, proponendosi ad esempio di giungere, nell’arco di due anni, da Platone a Hegel. Inoltre, se la lista di autori è prima facie più ridotta, in realtà, con cura filologica, viene osservato che per comprendere è necessario contestualizzare e, allora, con celeri ritocchi, ci si ritrova con un programma di ben diversa stazza (teorica e cartacea). E così, per studiare Socrate, Platone e Aristotele bisognerà occuparsi dei presocratici, dei sofisti e poi della filosofia ellenistica romana e dei neoplatonici; per comprendere Agostino e Tommaso, sarà bene conoscere la Scolastica dalle origini al ‘300; per Galileo, Cartesio, Hume, Rousseau, Kant e Hegel, servirà tutta la storia del pensiero da Galileo a Hegel (avendo cura di saltare al secondo giro Galileo, Cartesio, Hume, Rousseau, Kant e Hegel). Infine, l’ultimo anno si afferma essere dedicato alla filosofia contemporanea, da dopo Hegel ai giorni nostri. Ma ciò puntualmente non accade, perché, innanzitutto, spesso si arriva al terzo anno ancora con numerosi strascichi del secondo e, inoltre, la filosofia novecentesca viene appena abbordata. Anche per l’ultimo anno, le richieste sono assai esigenti, ossia:

 [n]ell’ambito del pensiero ottocentesco sarà imprescindibile lo studio di Schopenhauer, Kierkegaard, Marx, inquadrati nel contesto delle reazioni all’hegelismo, e di Nietzsche. Il quadro culturale dell’epoca dovrà essere completato con l’esame del Positivismo e delle varie reazioni e discussioni che esso suscita, nonché dei più significativi sviluppi delle scienze e delle teorie della conoscenza. Il percorso continuerà poi con almeno quattro autori o problemi della filosofia del Novecento, indicativi di ambiti concettuali diversi scelti tra i seguenti: a) Husserl e la fenomenologia; b) Freud e la psicanalisi; c) Heidegger e l’esistenzialismo; d) il neoidealismo italiano e) Wittgenstein e la filosofia analitica; f) vitalismo e pragmatismo; g) la filosofia d’ispirazione cristiana e la nuova teologia; h) interpretazioni e sviluppi del marxismo, in particolare di quello italiano; i) temi e problemi di filosofia politica; l) gli sviluppi della riflessione epistemologica; i) la filosofia del linguaggio; l) l’ermeneutica filosofica.

È possibile studiare tutti questi autori capendoci qualcosa? Al di là di comprendere la connessione delle etichette filosofiche (ad esempio, che un empirista non è un razionalista), che cosa può insegnare davvero un programma di questa mole? Gli studenti ne escono cerebralmente traumatizzati, soprattutto tra il secondo e il terzo anno, dopo lo scatto Kant-Hegel per riprendere il ritmo del programma, e non ricordano spesso alcunché. O meglio: se si ricorda, si ha appreso solo nomi di correnti e istruzioni generali per nomi di correnti, ma la rapida sequenza degli autori (contemporaneamente all’esistenza dell’impegno di altre materie al di fuori della filosofia) fa sì che la serie di nozioni appiccicate in testa sia presto rimossa. Inoltre, se la grande maggioranza di studenti non proseguirà lo studio della filosofia all’università, non è chiaro quale sia il fine di tutta questa fatica, al di là del fatto di sapere che Kant è esistito a un certo punto e ha detto qualcosa di oscuro che in qualche modo è filosofia.

Allo stesso tempo, anche alla luce della mia contingente esperienza accademica, non credo che questo metodo sia d’aiuto neanche per gli studenti universitari di filosofia. Imparare nomi generali, pseudo-concetti mai approfonditi, non introduce alla filosofia ma crea piuttosto l’illusione di poter parlare filosoficamente semplicemente computando con una certa verve una stringa casuale di termini altisonanti; molto più d’aiuto sarebbe introdurre al liceo ad argomenti filosofici strutturati, attraverso lo studio di alcuni problemi attraverso alcune argomentazioni di alcuni autori (e non per ogni x tale che x è un autore: etica, conoscenza, politica, religione).

Personalmente, ho l’impressione che la cura per l’interesse dei liceali verso la filosofia sia sempre più lasciata al caso, all’incontro con un professore particolarmente appassionato o a letture fatte per conto proprio. Come ho detto, si dà per scontato che la filosofia sia interessante e non se ne mostra il senso, come se un’introduzione ad essa non fosse necessaria: se per materie come fisica o matematica in cinque anni viene affrontato quanto sarà poi svolto in qualche mese di università (perché si ritiene importante semplicemente introdurre adeguatamente alla materia), invece in filosofia viene svolto in tre anni quanto un ricercatore non affronta in una vita.

A quest’ultimo riguardo, si potrebbe obiettare che la formazione nelle scienze umane ha un valore legato, in modo più generale, con la costruzione della persona e che, dunque, chi studiasse solo alcuni casi della filosofia svilupperebbe delle carenze come qualcuno che conoscesse solo parzialmente la Storia. Tuttavia, bisogna ricordare che nei licei è previsto l’insegnamento della filosofia, e non della storia della filosofia, e che quest’ultima sia ugualmente essenziale per l’istruzione di un cittadino è almeno fortemente discutibile. Nel suo libro, Mugnai prende di mira, in particolare, i manuali liceali, criticandone la costruzione meramente storico-diacronica e la mole di pagine. Inoltre, osserva sempre Mugnai, in essi viene lasciato sempre meno spazio agli autori della filosofia, che vengono sostituiti da riassunti generali delle dottrine e da collegamenti con altre materie. È lecito quindi chiedersi se lo studio pedissequo di un manuale può davvero introdurre alla filosofia, ossia se esso possa far capire cosa si stia facendo quando si fa filosofia. Per questo Mugnai propone, ad esempio, un nuovo tipo di manuale, di dimensione più ridotta e organizzato per aree tematiche sincroniche (come l’etica, la teoria della conoscenza, la filosofia politica) attraverso cui affrontare alcuni grandi problemi della filosofia, come il tema del libero arbitrio o il concetto di verità. Effettivamente, concentrarsi solo su alcune questioni monografiche permetterebbe di mostrare la validità dell’argomentazione filosofica e d’introdurre gli studenti all’importanza di certi problemi e, forse, all’interesse per essi; in caso contrario, è ben più difficile dimostrare la realtà di discussioni in cui, di settimana in settimana, si dice tutto e il contrario di tutto.

Un altro punto su cui Mugnai richiama l’attenzione, e che rappresenta anche l’altra proposta da lui suggerita, è l’importanza della lettura diretta dei testi filosofici. Se questo punto è sottolineato anche dai decreti normativi, nella pratica non è però sufficientemente attuato, quando permetterebbe di illustrare concretamente cosa sia un’argomentazione filosofica: si potrebbe, ad esempio, scegliere un testo su cui concentrarsi per qualche mese, da leggere e commentare in classe, affidando delle letture per casa e permettendo discussioni con gli studenti in aula. Certo, in questo modo il numero degli autori calerebbe drasticamente rispetto al presente, e forse anche il numero di dibattiti toccati: non sarebbero, tuttavia, più numerosi i temi trattati e discussi realmente? Se questi problemi sono reali, allora è bene chiedersi se un ripensamento serio dell’insegnamento non sia davvero necessario.

In realtà, il Ministero ha emesso, in anni recenti, un documento intitolato Orientamenti per l’apprendimento della Filosofia nella società della conoscenza (commissionato ad un gruppo tecnico), nel quale si suggeriscono alcune proposte per un ripensamento dell’insegnamento filosofico soprattutto in chiave di “competenze”. Il documento si propone di illustrare il ruolo dell’insegnamento filosofico, indicandone, inoltre, diverse ricadute positive in altre materie o capacità dello studente. Tuttavia, non ritengo che l’approccio lì delineato sia soddisfacente. Al di là dei tanti termini in lingua inglese, il documento rimane molto generale e, confesso, non sono riuscito a trovarvi un passo in cui si trattasse specificatamente (in modo approfondito e dettagliato) di ciò che debba fare la materia filosofia nelle ore liceali, di quali obiettivi concreti essa debba raggiungere e del motivo chiaro per cui essa sia importante in quanto filosofia. Vi sono delle buone idee, come la divisione dell’insegnamento in una parte monografica e in una generale, come l’importanza di insegnare il ragionamento logicamente corretto e della lettura dei classici filosofici; tuttavia, quando si giunge a discutere di ciò che è inerente strettamente alla filosofia e non valido in generale per ogni materia, il testo è vago. Cito un passo:

l’apprendimento della filosofia può contribuire a favorire la maturazione delle suddette competenze in modo da rendere ogni studente un autonomo costruttore di sé stesso: per certi versi, la ragione di tale possibilità sembra scaturire dall’etimologia stessa della parola, dallo spazio semantico che prospetta e dal sentimento che richiama, appunto ϕιλο e σοϕία […] filosofia come capacità di scorgere il legame in ciò che è apparentemente slegato, allora, raffigura una possibilità formativa da destinare a ogni studente, al fine di sviluppare in lui la consapevolezza della relazione come condizione del sapere, sia dal punto di vista dell’oggetto che da quello del soggetto e della comunità sociale.

Ritengo che considerazioni di questo genere siano troppo vaghe e non aiutino lo studente. Non soltanto per i motivi che ho elencato sopra, ma anche perché un approccio di questo genere rischia di essere deleterio per la risposta da parte dei ragazzi. Esso rischia, cioè, di dipingere la filosofia come qualcosa di borioso, tronfio, assolutamente non interessante e anche un poco folle (“neri di pustole, butterati, gli occhi cerchiati da anelli” e “questi vegliardi sono sempre intrecciati alle loro seggiole”, direbbe Rimbaud ne I seduti).

E allo stesso tempo, tentativi di avvicinare la scuola ai ragazzi non possono essere fatti attraverso stratagemmi, come la flipped-classroom o la digitalizzazione delle attività (come se la scuola dovesse diventare un gioco giocoso per poter risultare interessante agli occhi di uno studente o di una studentessa: ma così, si considera poco seria la scuola stessa o poco capaci studenti e studentesse?). Anche in questo caso, infatti, il risultato è la polverosità e un senso di disagio da parte degli studenti, anglosassonamente flippati o cooperatively educati. Il problema è rilevante e riguarda ciò che si potrebbe chiamare la formazione del futuro della nostra nazione, ma che credo denoti la stessa importanza se denominato semplicemente l’educazione dei giovani. Questioni come quella qui delineata sono centrali per l’Istruzione nel nostro paese, tema che è troppo importante per non essere affrontato con una cura estrema, anche a causa delle conseguenze silenziose, ma sempre più lampanti, degli anni di Covid-19 sul rapporto tra giovani e scuola.

Per quanto riguarda la filosofia, concentrarsi solo su alcuni argomenti filosofici, permetterebbe di smaltire questi detriti in modo efficace: sarebbe possibile ottenere una spiegazione approfondita, con la possibilità di mostrare i nessi concettuali retrostanti a un dato problema, nonché si potrebbe avere dialogo con gli studenti, i quali forse, capendo qualcosa di più, porrebbero più questioni. Dovremmo rinunciare al timore, diffuso circa le materie umanistiche, di dover insegnare tutto e di dover tutto menzionare: questo atteggiamento tradisce l’idea che in fondo così bisogna fare perché queste materie, dopo il liceo, saranno abbandonate per sempre. Ma la nausea diffusa tra studenti a causa del massivo enciclopedismo dovrebbe indurci a osar questionare maggiormente il nostro metodo.

Bibliografia

Decreto del Presidente della Repubblica del 7 ottobre 2010, n. 211

Ministero per l’Istruzione, l’Università e la Ricerca, Direzione Generale per gli Ordinamenti Scolastici e la valutazione del sistema nazionale di istruzione, Orientamenti per l’apprendimento della Filosofia nella società della conoscenza, 2017

Frege, Gottlob, L’idéographie, tr. fr. e prefazione di C. Besson, postfazione di J. Barnes, Parigi, Vrin, 1999

Mugnai, Massimo, Come non insegnare la filosofia, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2023