Se una patria esiste. Riflessioni sull’ebraismo

Se una patria esiste. Riflessioni sull’ebraismo

Esiste un luogo dove il cuore trovi l’agognato riposo? Un luogo che possa chiamare casa e patria? Finallora errerà sperando e rammemorando, che si tratti di “un uomo, un popolo, una civiltà”. Un uomo erra in cerca di una casa, un popolo in cerca di una patria. Nel tentativo di sviluppare la questione senza separare la vicenda individuale da quella collettiva, e anzi rispettandone l’isomorfismo, prenderò in considerazione l’esperienza prima religiosa e poi storica dell’ebraismo.

L’ideologia nazionalsocialista vedeva nell’ebreo l’emblema dello “sradicato”. In un quadro nel quale la comunione fra popolo e nazione, quindi fra sangue e terra, è il valore primo e irrinunciabile, un popolo nomade ed esiliato come quello ebraico ha qualcosa di diabolico e abominevole. Il radicamento nel proprio luogo naturale è ciò che dà forza ad un popolo. Tale luogo è il Vaterland – la terra dei padri – destinato ad un popolo come sacro ed eterno possesso. L’ebreo invece, privo di una nazione, è uno sradicato; essendo nato nel deserto – questo l’ambientalismo nazista – non ha potuto affondar radici, e di qui la sua aridità spirituale. Se sfrondata da ideologismi, tale genealogia coglie un punto importante: l’ebraismo ha nella sua essenza qualcosa dell’errare. Non diversamente Dio stabilisce nel suo patto con Abramo, mitica origine del popolo ebraico: “Sappi che i tuoi discendenti saranno forestieri in una terra non loro; saranno fatti schiavi e saranno oppressi per quattrocento anni” (Genesi, 15). Insomma, non un accidente storico, ma un decreto divino condanna l’ebreo al deserto – declinandosi, quindi, in Babilonia, Egitto, Sinai, Spagna, America, Polonia… Non c’è luogo stabile e duraturo nel deserto, ad ogni oasi si è richiamati a ciò che si cela oltre la duna all’orizzonte.

Se ciò convince, non si deve tuttavia dimenticare che anche l’ebraismo è una religione ed una fede. Non si può quindi credere che la sua rappresentazione del cammino dell’uomo sia un puro errare senza scopo. Piuttosto, l’ebraismo, come ogni religione, si figura un luogo nel quale il deserto finisce e il cuore tormentato trova riposo. Finché non vi giunge, l’uomo ne è esiliato, tuttavia ha la rassicurante speranza che ogni sofferenza un giorno troverà la propria redenzione, e l’esilio potrà chiudere il suo cerchio nel ritorno in patria. È chiaro già qui cosa questo significhi per l’ebraismo: il ritorno alla Terra Promessa, come epilogo ideale della Diaspora. Tale evento sarebbe una “fine della storia”: un’uscita dal tormentato tempo storico verso un ideale tempo biblico ormai immutabile nelle sue conquiste, dove nulla diviene e vige un eterno presente. In realtà, a ben vedere, tale obiettivo è stato incessantemente cercato anche nella quotidianità della millenaria storia diasporica. L’ossessiva ripetizione di usi, costumi, tradizioni – il proverbiale conservatorismo ebraico, certo uno stereotipo in alcuni aspetti – ha di mira qualcosa di simile ad un’uscita dal tempo, esorcizzazione delle sofferenze storiche. Vivere l’immutabile vita del Libro è una rassicurante “patria fuori dal tempo” – e ciò valga, in contesto certamente laico, per ogni tentativo di rifugiarsi in luoghi, persone, abitudini che si vorrebbero sottratti al cambiamento. In ogni caso, per tornare al punto, la manifestazione più chiara della vocazione religiosa dell’ebraismo, nel senso in cui sopra se ne parlava, è la fede nella Terra Promessa.

Ed ecco, finalmente: ONU Risoluzione 181 del 1947, storia sacra e storia profana trovano un punto di convergenza: “l’ebreo errante è arrivato”, come titolava Londres anni prima. Non è più uno sradicato, ha anche lui il suo Vaterland. Una terra, un popolo. Possibilmente una patria nella quale le angosce passate possano venir dimenticate, certamente un confine da proteggere ad ogni costo. Questo non è però privo di problemi, almeno non lo è per una buona parte di intellettuali ebrei. La specificità del popolo ebraico era proprio quella di essere un popolo errante: “gli ebrei orientali non hanno patria in nessun luogo, ma tombe in ogni cimitero”. Tuttavia, le circostanze storiche, ovvero la nascita dei nazionalismi, hanno reso impossibile in una cert’epoca la sussistenza di un popolo senza una propria terra – e ciò non valga solo per l’orrore nazista, ma nemmeno vada limitato al solo caso ebraico. Il sionismo quindi, effetto di questo scacco, ha proposto la più naturale soluzione al problema che affrontava: il rifugio in quella Terra che da sempre è destinata al popolo ebraico. Nell’inevitabile ambivalenza che un ebreo può avere nei confronti di Israele, Joseph Roth nel 1927 ne metteva già in luce un aspetto critico: “Il sionista vuole modificare l’ebraismo dalle sue fondamenta. Vuole una nazione ebraica che si presenti più o meno come una nazione europea”. “Nazione europea” al tempo aveva un significato preciso – Vaterland – e Roth era inquietato da questo modello, lui che invece era uno strenuo ammiratore del carattere errante dell’ebreo.

Come conseguenza di tutto quanto detto finora, Primo Levi negli anni ‘70 invitava a ripercorrere a ritroso la vicenda ebraica, riguardando a valori precedenti alla creazione di Israele: esortava insomma ad un ritorno alla “cultura della Diaspora” o, come si esprime Kafka, alla “vera patria diasporica nel tempo”, piuttosto che ad una “patria nello spazio” – quest’ultima in fondo altro non è se non un tempo che si sclerotizza nel presente. Questo ci conduce a domandarci che forma abbia assunto l’esperienza storica – la “cultura della Diaspora” – del popolo ebraico e in cosa differisca da quella religiosa. Quest’ultima – in una prospettiva più ampia – venga considerata come il timore verso il mutamento e il rifugio consolatorio in un passato (o in una trascendenza) che non muta. Mentre l’altra, si vedrà, nasce proprio dal ribaltamento di quella vocazione religiosa: l’ebreo, in realtà, sa di essere condannato alla storia, ovvero all’esilio – la patria invece è un miraggio, un Heimkehr (ritorno a casa) è impossibile, come risulta dall’omonimo, e brevissimo, racconto di Kafka.

Esperienza storica dell’ebraismo, ovvero “come ognuno si sente in esilio”

Per comprendere l’esperienza storica dell’ebraismo, nella consapevolezza del suo irresolubile errare, è utile partire dalla più comune esperienza umana. Ogni uomo è consapevole di aver oltrepassato quella sottile “linea d’ombra” che conduce fuori dall’infanzia, ovvero dall’età dell’immediatezza e del “rapporto integrale fra l’anima e le cose”. Ciò che ora ne rimane è il ricordo soltanto. Si è quindi coscienti della definitiva perdita di quella inconsapevole pienezza. Una pienezza che esiste solo per colui che ne è esiliato. Solo chi è esiliato, chi non è più un infante, può avere un’infanzia. Ovvero, solo chi è inquieto, sempre trepidante, può immaginarsi un luogo che si figura stabile, in cui la vita sia piena e autentica. Si chiami tale luogo Heimat (patria, casa). Non più il sopracitato Vaterland – un possesso che facilmente si tramuta in violenza per la paura della sua perdita -, ma qualcosa che assomiglia ben più ad un sentimento di intimità. Heimat è un luogo dell’anima che mai si riduce ad un afferramento materiale una volta e per sempre. È invece una sensazione delicata, che quando emerge va sfiorata con mano accorta per non farla svanire. Per questo ha il suo modo d’essere nel racconto, nel ricordo, più che nel vissuto immediato. Ed è in questo senso si può dire che noi non possediamo la nostra infanzia.

Ci si guardi tuttavia dall’identificare Heimat e infanzia, pur essendo facile che ciò avvenga. La patria perduta, dalla quale la vita è sottratta e per questo resa incompleta, può aver luogo – oltre che nel ricordo – nel rimorso, in una possibilità, in una speranza, in una fantasia – insomma, in ciò che non appartiene alla vita non perché trascorso, ma perché altro da noi e mai vissuto. Per riassumere questi altri significati di Heimat forse basta una sola espressione, nostalgia di un posto in cui non si è mai stati. Di quest’ultima nostalgia l’esperienza storica dell’ebraismo – innanzitutto quella degli ebrei occidentalizzati, nell’ ‘800, e di quelli sopravvissuti alla Shoah, nel ‘900 – è particolarmente sofferente. Lo spaesamento che questi uomini provano per il proprio tempo trova corpo e voce nella malinconica rievocazione di idillici luoghi lontani nel tempo, o soltanto immaginati. L’inadeguatezza alla vita di Kafka, ebreo a cavallo fra Occidente e Oriente, ha le sue radici in questa lontananza da una Heimat mai vissuta. Kafka, un uomo ormai occidentale, ha “per gli ebrei orientali l’amore tragicamente impotente di chi vorrebbe essere nato fra loro e vivere la loro vita […] Sono un popolo, sono vivi, sani, indistruttibili, legati al sangue, alla lingua, alla famiglia, al costume, a quello che conta soprattutto, che conta unicamente per Kafka, e che vorrebbe e non può conseguire”. A puro titolo esplicativo si aggiunge il caso di Rilke, non un ebreo, ma comunque radicato nella stessa Praga bifronte di Kafka. Anche lui soffre di questa inappartenenza ad entrambi i mondi – a quello a cui è destinato e quello da cui si sente lontano. Il suo è “lo smarrimento di uno scrittore che sente parlare intorno a sé una lingua diversa da quella in cui scrive, un poeta di lingua tedesca che non si sente un austrotedesco e che si sente invece radicato, con la fantasia e col sentimento, nel patrimonio di altri popoli e gruppi nazionali [slavi, precisamente cechi], la cui lingua egli non conosce più o comunque troppo poco per poter diventare in essa poeta […] è costretto a dire questa sua nostalgia in tedesco, ossia nella lingua dei dominatori”.

Heimat è quindi la propria infanzia, la vita dei padri, una vita felice. In ogni caso, ciò che non si ha; perciò Heimat è, finora, simbolo di una mancanza. La percepita perdita del “mondo di ieri” ha il suo fondamento nel – o addirittura si identifica con – il timore di essere uno straniero nel mondo d’oggi. Per riprendere quindi il punto dal quale siamo partiti: a differenza dell’esperienza religiosa, in quella storico-diasporica del popolo ebraico non si spera in alcun ritorno a quel “mondo di ieri”. “Non esiste per gli ebrei orientali alcuna patria in cui poter reinserirsi come a Itaca, ma esistono solo “tombe in ogni cimitero” a cui, periodicamente ma fugacemente, ritornare per poi ripartire”. È la condizione tragica del protagonista de Il Castello di Kafka: K. si aggira per il villaggio ai piedi del colle con l’intento di giungere al Castello che vi è in cima, ma nei meandri di vie, indizi e incontri ambigui si perde come in un labirinto – e come in ogni labirinto è lui stesso l’artefice della propria perdizione. Mai riuscirà a giungere alla “piccola città che accoglie, che custodisce, che consola”. Il Castello, l’Heimat, è infine come non esistesse, frutto d’immaginazione; forse è soltanto il memento della sua condizione di esiliato. Se Kafka vedeva l’origine della sua sofferenza nel distacco dalla sua comunità, tuttavia “non avrebbe trovato pace in alcun ritorno alla tradizione, l’impossibilità del quale era solo una metafora della sua impossibilità a risolvere il proprio dramma”.

Per un’altra Heimat

Se Heimat fosse solo una mancanza, l’uomo sarebbe condannato ad essere una coscienza infelice. C’è invece anche un rovescio della medaglia, un lato positivo e produttivo è incluso nell’assoluta negatività dell’Heimat come pienezza perduta. Quel ricordo, quella fantasia, quel “puro irradiarsi di un’immagine” proviene da ciò che è più profondo in noi. È ciò che rende noi stessi quel Singolo che siamo. Heimat non è quindi solo ciò che la psicanalisi intende per la mancanza che genera il desiderio, è anche ciò che rende la nostra esperienza vivida. È l’immaginazione, la fantasmagoria che arricchisce il nostro sguardo essendone la coloritura. Così vale per Mendel Singer nel Giobbe di Roth. “In America Mendel sente che v’è una strana connessione fra il grande oceano e le paludi della Galizia, e l’acqua lo attira come la voce dell’Heimat”. Il ricordo delle paludi galiziane, non solo è simbolo di ciò che non ha più, ma è anche l’immagine fuori dal tempo che custodisce in sé l’essere più intimo di Mendel, e tale affetto sfuma di una tinta nuova ciò che lui stesso incontra nella sua vita presente e futura, l’immenso oceano americano. Heimat è quindi ciò che rende a noi affascinanti certi luoghi, persone, atmosfere… questi sono ciò che di più intimo vi è in noi – per un marinaio il mare, la sua mitologica madre. È la forza che ci attira e attrae. “Nel Leviathan il mercante di coralli avverte similmente il segreto legame fra le acque nascoste delle paludi e le acque immense degli oceani, ma tale relazione, a differenza di Mendel, lo spinge ad abbandonare la propria terra per il mare ignoto e sterminato”. Un Heimat autentica non si risolve nell’Heimweh (nostalgia, ovvero “dolore per il ritorno”), ma al contrario in un Fernweh, “dolore per l’altrove”. Il mercante di coralli sa che ciò che in lui è più intimo si trova fuori di lui chissà dove. La patria non è il Vaterland da possedere, nemmeno è il segno dell’impossibilità della quiete (Kafka), ma è una promessa di felicità da portare lungo il cammino come in una saccoccia.

Bibliografia

Claudio Magris, Lontano da dove. Joseph Roth e la tradizione ebraico-orientale, Einaudi, Torino, 1989

Franz Kafka, Il Castello, Feltrinelli, Milano, 2015

Joseph Roth, Giobbe. Romanzo di un uomo semplice, Adelphi, Milano, 1977

Joseph Roth, Ebrei erranti, Adelphi, Milano, 2016

Divenire donna

Divenire donna

 In quanto donna non ho patria, in quanto donna non voglio patria alcuna, in quanto donna la mia patria è il mondo intero

Three Guineas, Virginia Woolf

Nel 1938 Virginia Woolf lasciava trasparire con una sola frase la sua peculiare condizione esistenziale: una donna diversa dalle aspettative della società, che non poteva trovare pace in nessun dove, osteggiata e non compresa perché differente; una donna cittadina del mondo, ma anche una sorta di esule planetaria.

A partire dall’osservazione dell’autrice, l’esilio planetario è diventato un topos negli studi femministi perché in grado di spiegare la condizione di tutte le donne e evidenziare ciò che le accomuna: l’essere senza dimora e senza punti fissi.

Penso sia forte l’esigenza di porsi in modo critico di fronte a questa suggestione e chiedersi oggi se il sentimento che accomuna le donne sia in linea con quanto scritto sopra, oppure no; come bisogna intendere il soggetto femminile?

La voce di Rosi Braidotti, filosofa e teorica femminista italiana naturalizzata australiana (1954), viene qui proposta assieme ai volti delle donne che animano le fotografie di due fotografe italiane, Paola Agosti e Elisabetta Catalano, che furono particolarmente attive tra gli anni Sessanta e Ottanta del secolo scorso. Le loro fotografie, come i testi della filosofa, testimoniano quanto il pensiero sulla femminilità e la percezione stessa dell’essere donne siano in continuo cambiamento; esse aiutano ad orientarsi di fronte all’osservazione di Virginia Woolf che, per quanto affascinante, lascia, a pensarci bene, un po’ spiazzati: abitare tutto il mondo significa sentirsi valorizzate come persone, in quanto cittadine del mondo, o significa, in quanto esuli planetarie, vagare nel mondo come emarginate?

La filosofa, in Soggetto nomade. Femminismo e crisi della modernità, introduce una visione originale dell’essere donna, intesa come soggettività nomade. Scrive che il soggetto nomade è la “rappresentazione teorica più rispondente alla soggettività contemporanea”, una soggettività mutata rispetto al passato, la cui identità si forma liberamente e svincolata da schemi di pensiero predefiniti, dualistici ed oppositivi che presupponevano la differenza come elemento svalutante, sia che questa fosse differenza culturale/etnica, sia che fosse sessuale.

La crisi di questo modo di pensare “vecchio” e “fallologocentrico”, che ha determinato la storica condizione di subalternità del soggetto femminile a quello maschile sedicente universale, costituisce secondo le femministe altro che(da?) un tramonto di valori per cui dispiacersi. La crisi della modernità è una grande opportunità: ha aperto spazi di possibilità per la ri-definizione della soggettività femminile. L’identità di ciascuna persona, ed in particolare di ciascuna donna, non è mai definibile come una “essenza monolitica”, ed è per questo che è nomade; è sfaccettata, stratificata, è il “luogo di un insieme di esperienze molteplici, complesse e potenzialmente contraddittorie, un luogo definito dalla sovrapposizione di variabili come la classe sociale, la razza, l’età, lo stile di vita, le preferenze sessuali, e così via” dove nessuna prevale sulle altre.

L’approccio teorico del nomadismo femminista è l’unico, secondo l’autrice, in grado di presupporre le differenze tra le identità, ma anche in grado di trascenderle. Cioè, l’etica nomade non considera come essenziali le differenze che strutturano le identità di ciascuno. Proprio per il suo essere anti-essenzialista, l’etica nomade è un’etica “inclusiva e non escludente” che si propone di pensare la differenza in un modo diverso rispetto a quello dualistico-oppositivo tradizionale, entrato in crisi verso la fine del XX secolo.

In quanto soggettività nomadica, l’identità femminile si modella continuamente grazie alle reti di interconnessione, o di “prossimità empatica”, che si tracciano tra persone che si incontrano e che instaurano relazioni durature o effimere. Le identità si contaminano, “transitano” per esperienze e condizioni differenti  per mezzo degli “spazi intermedi”, ovvero gli spazi di scambio, di incontro tra soggettività diversificate.

In questo senso il nomadismo è costruttore di identità che “divengono” in un continuum che non ha un punto di arrivo o una realizzazione predefinita: “gli spostamenti nomadici segnano un divenire creativo” fatto di partecipazione, contaminazione, mimesi, con l’“altro”.

È sorprendente come le fotografie di Paola Agosti e di Elisabetta Catalano sembrino essere state scattate su misura per esprimere il pensiero della filosofa, ponendosi in sintonia con esso. Transitando per le loro fotografie si incontrano soggettività diversificate che si lasciano ammirare e che nel contempo interrogano attivamente chi le guarda. Invitano, in questo spazio intermedio che si apre, a ripensare la propria identità, senza che la si consideri come già ben fatta e costruita. Un esplicito invito al nomadismo dunque, non solo inteso come strumento teorico ma come condizione esistenziale.

Il nomadismo delle protagoniste delle fotografie della Agosti è presente nel forte desiderio di mutamento esistenziale che si realizza attraverso l’azione collettiva e politica, mezzo attraverso il quale ritagliarsi questo spazio reale di possibilità e di cambiamento; la lotta dei gruppi femministi degli anni 70 rivendicava il riconoscimento di diritti della donna e, come scriveva la giornalista Adriana Seroni, era necessaria, ieri come oggi, una “riacquisizione individuale di una coscienza di sé liberata dai condizionamenti di una cultura degli uomini: una ricerca di sétramite la cittadinanza attiva. (La questione femminile in Italia, 1970-1977)

Roma, 8 marzo 1977

Andando oltre le fotografie stesse, raggiungendo e poi oltrepassando la pellicola di questi rullini bianco-nero, si scopre che anche gli occhi della fotografa sono finestre di una soggettività nomade: Agosti ebbe il coraggio di coltivare la professione della fotografa, che al tempo era interamente maschile, e di realizzarsi in essa malgrado la prepotenza dei colleghi uomini che facevano di tutto per aggiudicarsi sempre la visuale migliore.

Roma, 8 marzo 1976 manifestazione

Roma 11 dicembre 1978, Redazione Quotidiano Donna

Come nelle fotografie di Paola Agosti, anche in quelle di Elisabetta Catalano, sono donne nomadi le protagoniste; si vedono personalità di spettacolo, scrittrici, modelle, immortalate in momenti di autentica spontaneità, di libertà dei movimenti, di trasgressione, senza che sia imposto loro un modo “giusto” per venire ritratte. Grazie alla fotografa, queste donne scoprono la libertà di essere guardate in un modo diverso, inusuale, che non pensavano gli appartenesse ma che ora esprime la loro personale femminilità. Il nomadismo quindi si traduce nello spazio della trasgressione, del tradimento dell’immagine fissa e monolitica del sé che si credeva autentica.

Senza dubbio in questo continuo divenire donna non mancava, e non manca, la fatica di uscire da schemi sociali predefiniti ed essere soggetti attivi, liberi di muoversi negli spazi di possibilità propri dell’etica nomade. D’altra parte il soggetto femminile è stato storicamente abituato ad essere definito da altri, piuttosto che a definirsi autonomamente. Ad esempio, Elisabetta Catalano in un’intervista disse: “Monica Vitti si mostrava sempre nello stesso modo, oramai era solo un personaggio di Antonioni, ho cercato di lasciare che si esprimesse”.

Monica Vitti, San Felice Circeo, 1978, Roma

Natalia Ginzburg nella sua casa, 1973, Roma

L’attitudine all’apertura e al rifiuto di rigidità non deve far pensare che i soggetti nomadi siano indefiniti, anonimi, privi di dimora e esuli. La donna nomade è “un soggetto (…) che esprime il desiderio di un’identità fatta di transizioni, spostamenti progressivi, mutamenti coordinati”, ma che è d’altra parte anche “collocata” nella differenza – in primis sessuale – che la caratterizza, nella storia che la precede, nella cultura che ha inevitabilmente concorso alla formazione della sua identità. Riprendendo ad esempio gli scatti di Agosti, collocarsi nella differenza significa rifiutare un’idea di un emancipazionismo inteso come la mera omologazione della donna all’uomo o l’estensione dei diritti dell’uomo alla donna, ma rivendicare dei diritti in quanto donne. Non si deve perdere di vista il perno di tutta la riflessione che è la concezione anti-essenzialistica della differenza che così intesa non implica né una gerarchia, né la presenza di una “alterità svalorizzata” solo perché differente.

Ecco perché la soggettività femminile non è esule ma è nomade, e come coscienza nomade può dirsi anche collocata:

Il nomadismo a cui mi riferisco ha a che fare con quel tipo di coscienza critica che si sottrae, non aderisce a formule del pensiero e del comportamento socialmente codificate. Non tutti i nomadi viaggiano per il mondo; alcuni dei viaggi più straordinari si possono fare senza spostarsi fisicamente dal proprio habitat. Lo stato nomade, più che dall’atto di viaggiare, è definito dal ribaltamento delle convenzioni date.

Rosi Braidotti

Bibliografia

Rosi Braidotti (a cura di Anna Maria Crispino), Soggetto nomade. Femminismo e crisi della modernità, Roma, Donzelli Editore, 1995

R. Braidotti, E. Magini, C. Perrella, Soggetto nomade, identità femminile attraverso gli scatti di cinque fotografe italiane 1965-1985, Roma, Nero Editions, 2020

Adriana Seroni, La questione femminile in Italia 1970-1977, Roma, Editori Riuniti, 1977

Verso l’in(de)finito, e altrove

Verso l’in(de)finito, e altrove

Sembra non ci sia altra scelta che quella di partire. Ma forse mi sbaglio, non c’è bisogno di partire se non ci si è mai fermati. Allora andare, continuare ad andare, guardare avanti. Ci dirigiamo senza meta verso l’ignoto, rassegandoci al nostro squallido destino di abitanti del mondo, in continuo movimento, sballottati da un parco giochi ad un altro, accontentandoci solo momentaneamente del piacere della scoperta per poi ripiombare nell’umiliazione e nella vergogna della nostra incompletezza, nell’ansia della nostra finitezza da colmare, pur consapevoli della sua incolmabilità, con disperati slanci verso il mondo resoci disponibile, accessibile a noi sventurati uomini e donne del mondo di oggi, velocemente avviato a diventare mondo di ieri, che non possiamo fare altro che girare, seguirne l’inconsapevole rotazione, trottolare infinitamente con esso senza posa, senza pensieri, in balia delle incrociate correnti che innalzano e sprofondano a loro piacimento.

Dopo una fugace visita nella città di R. ci ritroviamo per strada, felici di aver ripreso il cammino. Sì, perché quando ci si ferma per troppo tempo si sente quel demone dentro che ci grida di continuare il viaggio, o quello che pensiamo essere tale, verso la nostra destinazione che, tuttavia, non ci è stata resa nota, come un’agenzia di viaggi che prenotasse il biglietto aereo senza farci sapere la destinazione d’arrivo: il biglietto è bianco, l’aereo di una compagnia sconosciuta. Tuttavia, noi ci fidiamo di chi la sa molto più lunga di noi, di chi ne ha viste a migliaia, ha esperienza da vendere. Così senza esitazioni saliamo a bordo, allacciamo la cintura, e via verso una nuova destinazione.

All’arrivo saltiamo giù con rinnovata fiducia nel nostro percorso, sicuri che la vita abbia ancora molto da riservarci. La città di B. è grande e luminosa, e noi siamo impazienti di vivere le sue strade brulicanti di incosciente giovinezza. Certo, pensiamo, non così lungamente: qualche ora, al massimo qualche giorno, e poi di nuovo per strada ad inseguire l’infinito svolgersi della nostra esistenza. Non possiamo certo permetterci di sprecare tanto tempo qui, perdendoci quello che ci aspetta. Usciamo quindi da B. e incontriamo un crocevia: uno di quegli incroci che, quando gli si sta davanti, non se ne capisce il valore, ma che, qualche tempo dopo aver preso una delle due vie che dividono il nostro destino, ci si accorge della sua importanza. Svoltiamo a sinistra, abbiamo tirato a sorte e la sorte ha scelto a sinistra. A testa china ci dirigiamo dove il sentiero ci conduce.

Arriviamo finalmente nel paese di T.: la marcia è stata lunga e la comitiva si è ristretta sempre più. Chi non ha retto fisicamente è stato abbandonato al suo dolore; chi ha perso il senno è stato isolato nei suoi deliri. Qui dove siamo ora tutto è diverso, tutto ci è nuovo, eppure tutto è familiare. Le persone hanno un volto amico; le case esalano i fumi di focolari accoglienti; i vecchi del posto ci accolgono come nipoti che si vedono solo nelle occasioni speciali, riversando su di noi tutte le attenzioni che la solitudine accumula e conserva. Ci guardiamo negli occhi gli uni dell’altro, noi pochi sopravvissuti, intendendoci senza proferire parola: in questo luogo non vogliamo restare più a lungo di quel che le necessità impongono. Troppa tranquillità, troppa familiarità, qui la vita si è interrotta anni addietro, e noi non possiamo fermarci.

Ci allontaniamo da T. diretti altrove, diretti lontani. Non abbiamo intenzione di ancorarci a quel luogo, legarci ad esso, affezionandoci alle sue quotidiane abitudinarietà. Ci allontaniamo spaventati preferendo l’altrove, quel luogo sconosciuto dove finalmente potremo sentirci in pace con noi stessi. Sul ciglio della strada incontriamo un vecchio che ci rivolge parola. Ci accoglie come riconoscendoci, ci guarda come si guardano compagni d’infanzia che crescendo si perdono di vista e, quando si vedono, ritrovano tra le rughe del tempo i volti della giovinezza passata. Mi domanda: Quo vadis, nomade? Io lo guardo stranito, sospeso nell’incomprensione; al che rinsavisco e mi offendo: Nomade a me? Lui non risponde, mi guarda silenzioso, aspetta. Però ancora non capisco: io non sono un nomade, noi siamo semplici viaggiatori come tanti altri. Perché ci chiama così?

Ci siamo sempre pensati dei viaggiatori avventurosi, che il nostro viaggio avesse una fine, che conoscere altri popoli e culture fosse ciò che realmente ci interessava. Siamo quindi nomadi? Questo vagare, che credevamo sensato fino a poco tempo fa, è davvero dettato da necessità occulte che il nostro sguardo, vivo e spontaneo, non riesce, per quanto si sforzi, a individuare e riconoscere? Arriva per tutti il momento, però, in cui la realtà delle cose, ben più profonda di quel che appare, si palesa nella sua essenzialità, mostrando i suoi reali tratti.

Mi riguardo indietro e non faccio altro che pensare a quando ho deciso di partire ed andare, parola d’ordine che mi sono sempre imposto, unica che ho sempre rispettato. Ora finalmente capisco, e quel che sono sempre stato mi si rivela perspicuo e adamantino, quel che faticavo a comprendere ora è facile e immediato. Colui che si ferma è perduto per sempre, egli dovrebbe affrontare le difficoltà della tediosa vita sedentaria, morte dello spirito, accettare l’invecchiamento del corpo o, ancora peggio, accettare di non aver avuto abbastanza coraggio per proseguire sulla strada, che è la vita, che non si ferma e non si può fermare. Riconsiderando i nostri passi, inconsapevoli e infantili, li abbiamo sempre pensati, effettivamente, di là a venire, come se non ci fosse mai stata altra strada che quella ancora da percorrere.

Il vecchio ha ragione e, chi più chi meno, ognuno di noi scala le proprie montagne: alla ricerca di qualcuno o qualcosa che su quel sentiero è già passato, che quella strada l’ha già battuta, riesumando fantasmi perduti nel ricordo. Non esiste davvero nessun posto in cui io possa fermarmi e pensare di abitarvi per sempre, stabilirmi, invecchiare. Ci si ferma quando si pensa di aver trovato un senso, ed io un senso non penso di averlo trovato e, a questo punto, credo non ci sia. Non voglio fermarmi e fingere di averlo trovato.

Siamo stati così abituati a non accontentarci di niente che l’unico modo per guadagnare un minimo di soddisfazione è porre il suo raggiungimento in un futuro che, per quanto possiamo pretendere di inseguirlo, non arriva mai. Esso si trova sempre un pochino più in là, in un altro luogo, e quando pensiamo di esserci, di poterlo afferrare a due mani e finalmente goderlo a pieno, ecco che ci troviamo con le mani vuote, e l’altrove, dove avevamo riposto le nostre speranze e tutte le promesse che ci siamo fatti lungo la strada, si palesa per quel che è: illusione e velleità di ingenui sognatori. Ma sarebbe sbagliato pensare che questo nostro disagio sia condizionato da inclinazioni personali o generazionali, senza che sia un più grande fenomeno globale a spingerci ad un tale stile di vita.

Il nomade contemporaneo, alleggerito dalla mancanza di un gregge a cui badare, è gravato da un peso di ben altra misura: dopo essersi perso, vaga in cerca di sé stesso, spesso senza avere il coraggio di riconoscersi, rendendo indefinito il proprio arrivo, sempre che un arrivo sia mai stato previsto. Inoltre, caratteristica importante del nomadismo odierno, è quello di riguardare non solo chi fisicamente si sposta senza riposo, ma anche chi, pur non muovendosi e non avendo intenzione di farlo, vaga, come e a volte più dei primi, lasciando che sia la propria mente ad immaginare mondi lontani che non raggiungerà mai, dove risiede la vera felicità, l’atarassia da ogni sofferenza, il rimedio alla propria disperazione.

Nella società attuale il nomadismo è anche e soprattutto quello della mente, delle idee, dei principi su cui si basa la nostra esistenza. In un mondo così spaesato, privo di una mappa da seguire, affetto da una cronica labirintite, sarebbe strano non essere nomadi. Desterebbe quantomeno qualche sospetto chi riuscisse a trovare uno scoglio a cui appigliarsi in un mare così vasto e profondo dove gli altri si affannano a sopravvivere. E se ancora non ci si fosse accorti del disorientamento generale, dello sradicamento collettivo, si consiglia di uscire a fare un giro per strada, guardarsi attorno, guardarsi negli occhi. Provare tutti insieme ad immaginare un ultimo viaggio verso l’altrove, là dove questo mondo incerto finisce e cambia e muore e si trasforma. Là dove nessuno sarà più costretto ad abbandonarsi alla corrente che conduce verso l’ignoto della morte. Finalmente ci si potrà rassegnare e fermarsi, respirare profondamente, bloccare i pensieri, rivolgere lo sguardo al cielo e assaporare l’esistenza privilegiata di coloro che accettano di restare dove sono, e pazientare, imparare ad amare nel tempo, aspettare anche quel che non arriverà mai e, finalmente, capire che quest’effimero altrove non esiste se non nella nostra mente.