Essere la città. Una passeggiata tra il tempo e lo spazio

Se la strada da percorrere tornasse ad essere, per una volta, corso alberato, vicolo angusto, piazza porticata? Tallone, dopo punta, dopo tallone imparerei semplicemente a vedere ciò che ho sempre (ciecamente) guardato.

“Il passeggiatore solitario e pensoso” si smarrisce, così, sempre in luoghi concreti. C’è chi lo chiama occhio di Parigi, chi kinoglaz (cineocchio), chi flâneur, ma credo abbia tanti nomi, quanti sono gli occhi abili a vedere.

Indugia, innanzitutto, presso la folla, prodotto peculiare della città moderna: “dove gli uomini vivono, estranei l’uno all’altro e viandanti l’uno accanto all’altro”. Nel marasma di volti scoloriti è l’unico a tentare di riconoscere questi viaggiatori di viaggi comuni. Ognuno di essi ha una storia le cui tracce si leggono nel viso, negli abiti, nel portamento: sono le infinite vicende che intessono la trama vivente della città. Godere della folla richiede, però, l’abilità d’essere “sé stesso e un altro […] come quelle anime erranti che cercano un corpo”. Qui il passeggiatore subito esclama: “Ciò che gli uomini chiamano amore è ben poca cosa […] paragonata a questa santa prostituzione dell’anima che si dà tutta intera […] all’imprevisto che si mostra, all’ignoto che passa”.

Talvolta, nell’errare dell’anima fra i vari corpi della folla, l’assale tutt’insieme un tremore improvviso. È una passante, dice Baudelaire, “esile e alta, in lutto, maestà di dolore. […] Bellezza fuggitiva / che con un solo sguardo m’hai chiamato da morte”. È un solo istante: “non ti vedrò più dunque che al di là della vita, / […] tu ignori dove vado, io dove sei sparita”. Un attimo al di là del tempo che riporta, questa volta Benjamin, alla propria infanzia: “mentre con calcato zelo si rivolgeva all’amico, per la prima volta lo sguardo del ragazzo cercò di stringersi a una passante. E così intenso fu il suo sforzo di non tradirsi né con la voce né con lo sguardo, che della passante non vide nulla”.

Sempre, ricordi come questo, riaffiorano alla memoria immancabilmente legati a certi luoghi. Ciò che spesso stupisce, però, è il luogo e il tempo sul quale la memoria decide di porre il suo accento: si hanno i ricordi più vividi delle situazioni apparentemente più insignificanti. Tuttavia, a queste immagini ordinarie è stato affidato qualcosa di ulteriore e più profondo: ci parlano della nostra intera persona, di tutto ciò che siamo. Così, per Benjamin, la cartolina di una piazza notturna, seppur sconosciuta, può essere sineddoche per il ricordo della sua Berlino invernale e, forse, per l’intera sua infanzia cittadina.

Vien da sé, però, che la memoria divenga un fine intarsio di luoghi soprattutto per il passeggiatore accorto. Dopotutto, lui soltanto s’avvede che “l’anima è, in certo modo, tutte le cose”: se le guardo, io sono queste facciate rase dalla luce, se ascolto il rombare e lo stridere del tram sulle rotaie, mi faccio io stesso tram e rotaie. In questo modo il passeggiatore si mimetizza, si maschera da ogni cosa che vede e si fa tutt’uno con le atmosfere cittadine. Benjamin vede nei suoi nascondigli d’infanzia una premonizione di questa abilità – spesso nel gioco puerile si cela in forma grezza un fatto molto serio. Perciò rievoca: il bambino nascondendosi dietro la tenda “diviene a sua volta qualcosa di fluttuante e bianco, uno spettro. […] E dietro una porta è porta lui stesso, la fa sua sotto forma di pesante maschera”. Benjamin, bambino o passeggiatore, è libero da superstizioni egocentriche: sa di essere nient’altro che i propri luoghi e i propri oggetti.

Un legame particolare si crea, però, solo con lo spazio che si abita. Peculiare, appunto, per il suo paradosso: quanto più è vicino e frequentato, tanto più si fa muto e obliato. Certamente il consueto intreccio di orizzontali e verticali, sempre uguale a sé, che osserviamo giorno dopo giorno dalla finestra, sa rassicurare e culla, ma non ci sa più parlare del passato. Sempre, infatti, le forme della città sono contornate dai ricordi, ma questi disegni della memoria, insieme alle forme stesse, si fanno nitidi soltanto allo sguardo di chi torna dopo lunga separazione. Al rimpatriato, la città, vista come per la prima volta, restituisce i toni emotivi del passato, al tempo celati dall’abitudine. A quel punto, ogni cono prospettico, ogni scorcio, si rivela custode fidato di ciò che è trascorso. Ma che accade quando lo scrigno delle nostre memorie viene sfasciato?

“Parigi, / la vecchia Parigi è sparita (più veloce d’un cuore, / ahimè, cambia la forma d’una città). […] Parigi cambia! Ma niente, nella mia melanconia, / s’è spostato: palazzi rifatti, impalcature, / case, vecchi sobborghi, tutto m’è allegoria; / pesano come rocce i ricordi che amo”. Baudelaire visse la drammatica metamorfosi della sua Parigi a metà ‘800, alla quale il suo cuore non riuscì a tenere il passo. Il Barone Haussmann, prefetto della città, con squadra e matita traccia monumentali boulevard attraverso affastellati quartieri medievali. In pratica: decenni di lavori che traghettano Parigi verso un’inedita modernità – è qui che Baudelaire vede la folla -, al prezzo, tuttavia, di fagocitare sé stessa e i propri scenari passati. Rimangono soltanto gli immemori vegliardi – cattedrali, residenze reali… -, posti negli snodi centrali del tessuto urbano, a simboleggiare la continuità della città nel tempo, ma ridotti, ormai soltanto, a rispettabili antichità da collezione.

Ciononostante, se interrogati saggiamente, ancora sanno essere testimoni d’altre epoche. Così la chiesa di Combray, per Proust, è “qualcosa d’assolutamente diverso dal resto della città: un edificio che occupava, se così si può dire, uno spazio di quattro dimensioni – la quarta era quella del Tempo – che spiegava attraverso i secoli la sua nave”. E se saremo tanto audaci, giungeremo attraverso i millenni fino alle sue origini ideali.

Una volta, nel deserto del Mojave in California, vidi un cartello arrugginito, una sorta di spot pubblicitario, molto lontano dalla strada. Era piantato nel nulla, e le sue grandi lettere sbiadite annunciavano: Western World Development: slots 410-460. Qualcuno doveva aver progettato proprio in quel lembo di deserto una città. Il paesaggio circostante era completamente arido, si vedeva solo qualche sparuto cactus. Provai a immaginare lì una città: osservando quella distesa avevo quasi l’impressione che fosse effettivamente esistita, e soltanto scomparsa. Una cosa però non potevo ignorare: la regione era molto più antica di qualsiasi insediamento; quindi, era anche inessenziale sapere se fosse o meno esistito un agglomerato urbano.

Wim Wenders, L’atto di vedere

È questa una ripetizione del sacrilegio originario della fondazione: siamo ancora quei primi uomini empi che osarono ritagliare per sé un lembo di terra, proprietà eterna delle sole divinità telluriche. Da un tempo immemore, ormai, la città paga il fio di questa colpa nativa. Espierà il peccato soltanto quando la polvere “filtrerà dentro gli oggetti, si fonderà con gli oggetti, e alla fine ne prenderà il posto”. Ma la città, ancora, resiste, ed insieme ad essa la sua folla, le sue forme, le sue memorie.

“È come se lo spazio [la città], consapevole […] della propria inferiorità rispetto al tempo, gli rispondesse con l’unica proprietà che il tempo non possiede: con la bellezza.”

Bibliografia

Charles Baudelaire, I fiori del male, Einaudi, Torino, 2014

Charles Baudelaire, Lo spleen di Parigi, Garzanti, Milano, 2023

Walter Benjamin, Infanzia berlinese intorno al millenovecento, Einaudi, Torino, 2001

Iosif Brodskij, Fondamenta degli Incurabili, Adelphi, Milano, 1991

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