Settembre, 1992. Sono passati nove mesi dallo scioglimento dell’Unione Sovietica e sette dall’inizio di Mani pulite con l’arresto di Mario Chiesa. Fine della Guerra fredda e inizio della crisi della Repubblica dei partiti. Mentre nell’Europa centro-orientale si sta compiendo la rivincita dello stato nazionale, in Italia lo Stato repubblicano sta vivendo lo sconvolgimento più grave dalla sua fondazione. É in questo clima che Ernesto Galli della Loggia, non ancora editorialista del Corriere della Sera, decide di rivolgersi al pubblico del Convegno di Trieste su Nazione e nazionalità in Italia con una relazione dal titolo La morte della patria. Questa formula, il cui obiettivo è quello di esprimere la crisi dell’idea di nazione in Italia a seguito della tragedia dell’8 settembre, viene ripresa dal De profundis di Salvatore Satta, un testo carico di dolore, scritto tra il giugno del 1944 e l’aprile del 1945, nel quale l’autore riflette sulla disfatta italiana e sulla catastrofe della guerra civile. Alla conferenza di Galli della Loggia, poi pubblicata in volume dall’editore Laterza, fa seguito un proliferare di scritti sulla lunga crisi del sentimento nazionale italiano, tanto da far parlare Emilio Gentile – non senza una nota polemica – di un vero e proprio genere letterario della morte della patria. É però proprio questo “coro di lamentazioni patriottiche” a spingere lo storico molisano a pubblicare nel 1997 una storia del mito della nazione nell’Italia contemporanea. Pur rigettando l’attribuzione del suo testo a quell’osteggiata varietà, Gentile ammette che “alla pubblicazione del libro non fu estranea la lettura del genere letterario della «morte della patria»”. In effetti, il suo obiettivo è proprio quello di moderare e correggere quelli che considera i frettolosi giudizi emersi negli anni precedenti. Intento opposto a quello di Galli della Loggia, che invece vuole esattamente dare il là a un dibattito pubblico sull’idea di nazione italiana. Ci troviamo così di fronte a due storici contemporanei, separati da differenze di metodo e di intenzione, che nel loro ruolo di intellettuali intervengono su una questione di (massimo) pubblico interesse, innescando una disputa a distanza. É possibile sviluppare un confronto tra le due posizioni intorno alla valutazione data dai protagonisti al ruolo svolto da tre fattori: l’8 settembre, il Partito comunista e la Democrazia Cristiana.
Il giudizio riguardo la catastrofe dell’8 settembre è sostanzialmente concorde. Lo “spettacolo della dissoluzione dello Stato” all’indomani della proclamazione dell’armistizio, incarnato dallo sbandamento dell’esercito e dalla fuga del Re, è ciò che ha prodotto la disgregazione dell’identità nazionale, rappresentata dall’idea dell’Italia come grande Stato nazionale ereditata dal Risorgimento. Vi sono comunque due elementi di distinzione: se Galli della Loggia non esita a vedere specificamente nell’8 settembre lo spartiacque tra le due fasi della storia dello Stato, in quanto “simbolo del fallimento rovinoso in cui è destinata ad incorrere qualsiasi risposta” ideologica alla domanda riguardo la possibilità per gli italiani di essere nazione, Gentile è indubbiamente più cauto. Egli attribuisce infatti tale ruolo di cesura al combinato disposto degli eventi del triennio 1943-46: solo nel loro insieme “trascinarono nella rovina anche la fragile identità nazionale che, pur con tutti suoi limiti, ambizioni e illusioni, gli italiani avevano conquistato durante gli otto decenni di vita unitaria”. Vi è infine il ruolo della desolante disintegrazione dell’esercito, su cui Galli della Loggia si concentra molto di più e a cui dà un significato prima di tutto morale, in quanto immagine “della rinuncia a battersi, della resa alla paura, del disintegrarsi della volontà e della capacità di durare e resistere da parte dello Stato”. Gli unici attori rimasti a poter interpretare la coscienza nazionale erano i partiti antifascisti, ritrovatisi padroni delle macerie dello Stato.
É sulla valutazione del ruolo di questi che le posizioni tra i due storici differiscono: se Galli della Loggia ne descrive l’azione come sostanzialmente antinazionale, Gentile è più disposto a sottolinearne il recupero di alcuni aspetti della tradizione patriottica italiana. Il primo nota una ambiguità di fondo comune a tutti i partiti della Resistenza, i quali si sono presentati come i vincitori al termine di una guerra che il Paese aveva perso: va infatti notato “il carattere nazionale, e non già fascista, che la sconfitta ebbe agli occhi degli Alleati, e che quindi ad essa va anche storicamente attribuito”, confermato dall’iniquità del Trattato di pace. A ciò si aggiunge il rifiuto da parte della Resistenza di accettare l’espressione guerra civile, che non è stato altro che “il tentativo – in tutto e per tutto analogo a quello fascista, ma solo rovesciato di segno – di confiscare a vantaggio di una sola parte l’idea di nazione”, causa del fallimento da parte della stessa nel divenire un mito di fondazione adeguato per il rinnovato Stato da innestare nell’identità nazionale. Diversamente, pur riconoscendo “una progressiva estraniazione degli italiani dal mito nazionale” perpetrata dalla Repubblica nata dalla Resistenza, Gentile individua al suo interno due difensori dell’idea di nazione: il Partito comunista e il mondo cattolico.
Vediamo il primo: facendo uso delle riflessioni di Gramsci sulla storia e sulla cultura d’Italia, il PCI avrebbe costruito una “mitologia nazionalcomunista”, che si sarebbe presentata come una nuova forma di italianismo: l’arrivo al governo da parte dei comunisti sarebbe stato il compimento della rivoluzione nazionale iniziata dal Risorgimento, la cui classe dirigente liberale avrebbe lasciato il testimone all’intellettuale organico gramsciano. Ma, sempre a parere di Gentile, è stato l’antifascismo l’elemento attraverso il quale il Partito comunista ha legato maggiormente se stesso al destino della nazione: “il monopolio dell’antifascismo e dello «spirito della Resistenza» fu la condizione per rivendicare il mito nazionale”. Da una rappresentazione patriottica del comunismo italiano non potrebbe essere più lontano Galli della Loggia, che vede nella decisione di Togliatti di schierarsi dalla parte della Jugoslavia sulla questione dell’Istria e della Venezia-Giulia l’espressione più chiara della pulsione contraria all’interesse nazionale italiano proveniente dal PCI. In generale, l’azione del Partito comunista in veste di agente di prossimità di un paese straniero, l’Unione Sovietica, avverso agli interessi nazionali italiani, avrebbe contribuito all’incapacità della Resistenza di “acquisire compiutamente la dimensione nazional-patriottica che, allora come oggi, sarebbe stata necessaria perché essa potesse divenire davvero matrice di «memoria condivisa» per tutti gli italiani”. Più in generale, “la disintegrazione della statualità italiana seguita all’8 settembre creò uno scenario non solo di tipo preunitario, ma […] addirittura seicentesco, nel quale tutti gli attori politici nazionali si trovarono costretti […] a rappresentare ciascuno uno straniero, a doversi identificare in misura maggiore o minore con uno di essi”.
Venendo al mondo cattolico, Galli della Loggia individua nel tentativo da parte della Democrazia Cristiana, fin dal momento della presa di possesso dello Stato, di rendere la comune fede religiosa il collante nazionale, in sostituzione degli ideali risorgimentali, un’amputazione dell’originale idea di nazione italiana. Al contrario, Gentile vede nello sforzo cattolico di conquistare l’italianità, anche attraverso la valorizzazione della componente neo-guelfa del Risorgimento, come un autentico tentativo di ricostruire l’identità nazionale. Un tentativo comunque destinato a fallire, in quanto la “subordinazione dell’identità nazionale all’ideologia del partito fu certamente una delle principali cause che impedirono all’Italia repubblicana di avere un mito nazionale, a prescindere dalla militanza politica”. Gentile esprime così un punto con il quale Galli della Loggia non potrebbe che assentire: “I partiti dell’Italia repubblicana non riuscirono a coltivare e trasmettere agli italiani la coscienza nazionale, l’amor di patria, il senso dello Stato, coniugandoli con i valori della democrazia sociale”.
In conclusione, ci sembra questo il più grave peccato dello Stato repubblicano: non aver saputo definire univocamente l’interesse nazionale, la ragione di Stato, i valori non negoziabili della nazione. Solo in questi si può formare una classe dirigente adeguata, in primo luogo una burocrazia statale funzionante, la quale dovrebbe fare riferimento alla sola cultura della nazione – intesa come spazio non negoziabile di valori – e perciò percepita come rappresentante dell’interesse generale. Tale spazio valoriale va cercato all’interno della nazione stessa, attraverso il dibattito pubblico e accademico: è questo il caso della disputa a distanza tra Ernesto Galli della Loggia ed Emilio Gentile. Un dibattito non a caso avvenuto al tramonto di quel controllo egemonico sullo Stato chiamato Repubblica dei partiti, alba mancata di un nuovo patriottismo democratico.
Bibliografia
Ernesto Galli della Loggia, La morte della patria, Laterza, Roma-Bari, 1996
Emilio Gentile, La Grande Italia. Il mito della nazione nel XX secolo (1997), Laterza, Roma-Bari, 2006
Salvatore Satta, De profundis (1948), Adelphi, Milano, 1980