Questa città che non si cancella dalla mente è come un’armatura o reticolo nelle cui caselle ognuno può disporre le cose che vuole ricordare.
Italo Calvino, Le città Invisibili
Nel famoso romanzo Le città invisibili, Calvino descrive una pluralità di città diverse, ognuna legata agli uomini che sono entrati in contatto con esse, ognuna espressione del ricordo e del desiderio dell’uomo, delle sue aspettative, delle sue domande e delle eventuali, possibili risposte. Queste città, così impossibili da sembrare reali, si sovrappongono e si mescolano l’un l’altra diventando una sola, costruendo una realtà composita e unitaria allo stesso tempo. Risulta evidente, però, l’impossibilità di indossare le lenti necessarie a riconoscere la complessità dimensionale della città, costituita da una totalità che individualmente l’uomo non riesce a cogliere, da un insieme di città nascoste l’una all’altra, che allo stesso tempo esistono e non esistono in base all’osservatore che le guarda.
All’interno dei Racconti Romani Alberto Moravia ci parla della capitale d’Italia nel secondo dopoguerra; una città ancora memore del disastro bellico. Dai personaggi protagonisti delle vicende narrate emerge un mosaico variegato della Roma popolare e moderna, un mosaico in cui, paradossalmente, manca Roma stessa. Non c’è alcuna descrizione della città storica e monumentale. Roma è i suoi personaggi: camionisti, bottegai, disoccupati, camerieri e truffatori sono inseriti in uno spazio ben descritto dall’autore, il quale cita strade, piazze e quartieri entro i quali i personaggi vivono e lavorano. Questa descrizione spaziale così accurata ci rende il senso, tuttavia, di un’esistenza quotidiana limitata ai confini rappresentati da queste stesse strade, le quali sono l’unica città di cui i personaggi fanno esperienza, al di fuori di esse c’è un altro mondo e, quindi, un’altra città che, per quanto simile, non è mai uguale a sé stessa. Questa città-mosaico composta da un’infinità di tasselli accostati l’uno all’altro esiste nella sua unitarietà solo per chi non la vive, per chi può osservarla da lontano e coglierne il disegno completo. In questi racconti Roma è in ogni piazza, all’interno di ogni bar e trattoria, ma è indissolubilmente legata all’esperienza soggettiva degli uomini che la abitano.
Elio Vittorini in Le città del mondo affronta un viaggio all’interno della sua Sicilia. Viaggio che tocca solo tangenzialmente gli innumerevoli agglomerati urbani della regione. La loro presenza è però costante all’interno dei dialoghi dei personaggi, sono per loro riferimento imprescindibile, ma quasi mai essi si addentrano nelle città per viverle in prima persona. Le città sono ignote, “intraviste, non visitate”, appartengono solo al mondo dell’immaginario e dell’immaginato: rappresentano le paure e le speranze dei personaggi, sono un sogno e un mito, l’orizzonte e il limite delle loro prospettive. Ancora una volta il miglior modo per comprendere a pieno cosa sia la città sembra essere l’individuazione della natura del rapporto creatosi tra essa e l’uomo, che la viva da vicino o la percepisca da lontano.
La letteratura contemporanea ha posto al centro della propria narrazione lo spazio cittadino, protagonista indiscusso delle vicende umane a partire dal XIX secolo. Tre dei più celebri romanzieri italiani del Novecento hanno sviluppato il tema della città evidenziando la sua complessità, dimostrando come la città non sia definibile dall’ampiezza delle sue strade o dall’altezza dei suoi edifici: “non di questo è fatta una città, ma di relazioni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del passato”. Una città è definita dal ricordo che l’uomo ha di essa, dalla sua soggettività che si mescola e si amalgama con quella degli altri uomini creando un’infinità di città, le quali sono inaccessibili e nascoste alle altre. Calvino ci aiuta ad entrare in questo mondo mettendo in risalto il tema della molteplicità della città, la quale è prodotta, prevalentemente, dalla relazione che l’uomo instaura con il suo spazio, quindi dalla soggettività del ricordo.
Rivolgendo l’attenzione verso pochi esemplari romanzi italiani si comprende in modo evidente come il racconto di una città, in fondo, nulla è se non il racconto degli uomini che la abitano, la attraversano, la immaginano e, soprattutto, la ricordano. Le città sono il centro dell’attività umana: senza l’uomo, senza la memoria che gli uomini ne hanno, senza la capacità di inserire all’interno dello spazio urbano quei ricordi che, congiunti, formano la nostra intera esistenza, esse diventano vuote, insignificanti. La mancanza della possibilità del ricorso all’oblio crea perspicuamente una città diversa da quella che si presenta ai nostri occhi: trasfigurata e decostruita dal nostro passato, essa assume sembianze indicibili all’altrui percezione, la quale si fonde con la quotidiana abitudinarietà del percipiente, in una costante commistione tra l’imprescindibile realtà spaziale e l’ineliminabile ricordo ad essa legata.
È quindi lecito chiedersi cosa sia la città, o se sia possibile definirla, ora che abbiamo evidenziato la sua molteplicità? Ha senso descrivere una città quando le definizioni sono potenzialmente infinite? Ha senso definirla per come la percepiamo soggettivamente, consapevoli della sua mutevolezza e molteplicità.
Cos’è, quindi, la città se non la rete di fili invisibili che ci legano alle persone con le quali condividiamo l’esistenza? Fili che si intrecciano con il nostro passato e con il ricordo delle persone che ad esso appartengono. La città: cimitero delle nostre speranze passate, fitta rete delle relazioni presenti, diventa il luogo, infine, dove coltiviamo il nostro futuro, dove il costante confronto con la sua fisicità contribuisce al processo di creazione della città stessa: un deserto e una rete sviluppata su diversi piani temporali, infinita, impalpabile, soffocante, sempre e solamente una città privata, nascosta a sé stessa.
Anche a Raissa, città triste, corre un filo invisibile che allaccia un essere vivente a un altro per un attimo e si disfa, poi torna a tendersi tra punti in movimento disegnando nuove rapide figure cosicché a ogni secondo la città infelice contiene una città felice che nemmeno sa d’esistere.
Italo Calvino, Le città invisibili
Il primo numero della Rivista di Sottosuolo è dedicato alla città, spazio della nostra esistenza, considerata nei suoi diversi aspetti, nelle diverse forme che ha assunto nel passato, che assume nel presente e che potrebbe assumere nel futuro.
Jozef Taiana compie un viaggio tra lo spazio e il tempo approfondendo il tema del flâneur, passeggiatore accorto che si muove tra la folla indistinta di viaggiatori di viaggi comuni, e del ricordo, il quale solo ci permette di vedere realmente la città che abitiamo.
Gaia Perego ci parla invece di una città lontana nel tempo, nascosta da millenni di storia e riportata alla luce dagli archeologi: Uruk, odierna Warka in Iraq, paradigma di una città che va ben oltre la sua spazialità, che si caratterizza per le interazioni sociali che influenzano i suoi abitanti.
Maria Pia Ascoli ci riporta la Milano che Alberto Rollo descrive in Un’educazione milanese, una città che appartiene al passato dell’autore e che risiede solo nel ricordo di una giovinezza lontana, nell’idea di una Milano che non si è mai realizzata e che deve confrontarsi con la sua versione attuale, modificata nello spirito così come nella forma.
Forma che è in perenne cambiamento: nel nostro percorso trovano spazio anche slanci verso il futuro di una città in continua ridefinizione: ce ne parla il Professor Gabriele Pasqui intervistato da Matteo Mercuri sul tema della riqualificazione urbana dei grandi scali ferroviari a Milano.
Altro modo per parlare della città, forse, è non parlarne affatto, riferendosi invece all’esperienza abitativa di chi dalla città si è allontanato, come fa Lorenzo Molinari descrivendo le capanne della filosofia, rifugi isolati dove Heidegger, Wittgenstein e Thoreau hanno abitato per lunghi periodi della propria vita avulsi dalle città, luogo in cui gli uomini vagano “distratti e smarriti” privi di un sentiero.
Carola Visca ci parla al contrario di una città che impedisce la fuga, che cela ogni via d’uscita: la Ravenna rappresentata nelle scene di Deserto rosso di Michelangelo Antonioni, una città avvolta dal fumo delle fabbriche, in cui la protagonista si aggira spaesata, inquieta e incapace di sconfiggere la solitudine. La Ravenna industriale descritta da Antonioni non solo è nascosta da una nebbia disorientante ma è simbolo dell’incomunicabilità provata dagli uomini che la abitano.
I diversi contributi che verranno qui pubblicati rispecchiano le sensibilità e i diversi interessi degli autori. Tutti sono però attraversati, nella loro specificità, da un filo rosso che li accomuna e li lega tra loro: l’esistenza di una città che, solo all’apparenza, si presenta unica e indivisibile, ma che si rivela, in realtà, caratterizzata da un’inevitabile molteplicità. Sembra quindi legittimo poter parlare di una città nascosta che, in ogni tempo e in ogni luogo, è definita maggiormente da ciò che non si vede.
Bibliografia
Dino Buzzati, Un amore, Mondadori, Milano, 2023
Italo Calvino, Le città invisibili, Mondadori, Milano, 2022
Beppe Fenoglio, I ventitré giorni della città di Alba, Einaudi, Torino, 2015
Alberto Moravia, Racconti romani, Bompiani, Milano, 1977
Jules Verne, Parigi nel ventesimo secolo, Feltrinelli, Milano, 2023
Elio Vittorini, Le città del mondo, Bompiani, Milano, 2021