L’epopea degli emigrati italiani: coscienza e identità viste “da fuori”

da | Giu 11, 2024 | La coscienza italiana

La coscienza italiana è nata a poco a poco, si è sviluppata intorno ad esperienze comuni come l’emigrazione e si è fortificata incontrandosi con l’altro quando gli italiani si sono trovati all’estero. A livello istituzionale, invece, lo Stato italiano ha avuto un ruolo ambiguo nel confrontarsi con l’esperienza dell’emigrazione e solo recentemente ha iniziato a riconoscere il fenomeno come parte dell’identità nazionale ufficiale. Partiamo da un presupposto: il rapporto tra italiani emigrati e Stato italiano fu sfumato e ambiguo. Sin dall’epoca liberale la fuga di milioni di italiani rappresentò un motivo di vergogna, dato che implicava una debolezza economica che le istituzioni non riuscivano a risolvere. Invece, secondo la studiosa Anna Cento Bull, gli emigrati potevano essere visti come “coloni” che invadevano i territori attraverso la loro cultura. Da qui, la promozione della cultura italiana da parte di associazioni, come la Società Dante Alighieri, fondata nel 1889.

A livello numerico, il fenomeno dell’emigrazione italiana assunse, dal 1870, dimensioni sempre più consistenti. Tra il 1876 e il 1901, in Francia la popolazione italiana raddoppiò (da 163.000 a 330.000), ma solo un quarto rimase alla vigilia della Prima Guerra Mondiale. Nel contesto americano, la portata dell’emigrazione italiana fu impressionante: tra il 1901 e il 1910 più di 2.300.000 italiani si spostarono negli USA, ma nuclei di dimensioni molto simili per numero si trasferirono in Canada, in Argentina e in Brasile.

Gli emigrati che partivano nella seconda metà del XIX secolo si sentivano molto più legati al proprio villaggio o alla propria regione, piuttosto che alla propria nazione. L’identità era quindi locale ed erede di una mentalità campanilistica. Giuseppe Prezzolini, nel suo diario, scriveva che gli emigranti avevano lasciato la patria prima ancora di diventare italiani. Le comunità all’estero erano infatti formate da emigrati provenienti dalla stessa regione, che parlavano lo stesso dialetto: Luigi Villani, agente consolare a New York, vedeva in una strada i siciliani, in un’altra i calabresi, in una terza via gli abruzzesi. Ognuno viveva autonomamente, mantenendo il proprio dialetto, i prodotti culinari e le proprie abitudini. E anche i pregiudizi verso le altre regioni. Rosa Cavalleri, un’emigrata lombarda che viveva a New York, classificava gerarchicamente le varie regioni: “Le persone provenienti dalla Toscana non sono brave come quelle che vengono dalla Lombardia. Ma non sono brutte quanto le persone della Sicilia […]. La Lombardia è l’ultima al mondo a fare cose sbagliate”. Aggiungeva anche che i siciliani non erano neanche italiani.

Chi non vedeva distinzioni tra queste comunità, e quindi non percepiva le differenze geografiche, linguistiche e culturali, erano le popolazioni autoctone: negli Stati Uniti, ad esempio, gli immigrati venivano considerati tutti italiani. Secondo molti storici, il sentimento nazionale è nato prima tra questi italiani emigrati rispetto a quelli in patria proprio per questo motivo. La designazione di italianità data dalle popolazioni autoctone alle comunità italiane, spesso per contrassegnarle in modo negativo, è stata un elemento di unificazione. Lo scoppio del primo conflitto mondiale fu il “vero stimolo alla conoscenza della patria” secondo Paola Corti, storica che si è occupata di emigrati italiani in Brasile. Molti, infatti, si arruolarono volontari per il proprio paese di origine. Lo fece Cesare Mainella, veneziano emigrato in Argentina nel 1912, che nel suo diario annotava: “Vivendo in questa atmosfera patriottica decisi assieme a Feltrin e tanti altri italiani di partire per l’Italia e partecipare alla cruenta lotta. Vedo ora che il gesto fu inutile ma allora eravamo tutti pieni di amor patrio”.

Un’altra fase fondamentale per lo sviluppo di una coscienza italiana fu il periodo tra le due guerre mondiali. In questo periodo gli emigrati italiani, dovendo confrontarsi con il medesimo fenomeno discriminatorio soprattutto negli ambienti di lavoro, iniziarono a sviluppare un’identità fondata sull’italianità. La comunicazione avveniva non più attraverso il dialetto ma con l’italiano, venne abbandonata l’endogamia interna alla comunità regionale, ci si aprì a sentimenti di lealtà nei confronti dei paesi di accoglienza. Questa identità si rafforzò, in termini nazionalistici, con l’avvento del regime fascista in Italia e i discorsi propagandistici di Mussolini. Paulo Pisicano, discendente di emigrati siciliani, affermava che per molti italo-americani Mussolini era “un eroe, un supereroe”. Massimo Salvadori, rifugiato antifascista in America, sosteneva che gli emigrati “in Italia non erano mai stati italiani, ma in America erano diventati nazionalisti italiani”. Emigrare dall’Italia in tempo di dittatura significava scoprire, per molte persone, altri ideali politici oltre a quelli proposti dal fascismo. In una parola, emigrando si poteva scoprire di essere antifascisti. E’ quello che è successo ad Anita, orfana di guerra che viveva con gli zii paterni a Nimes, in Francia. Scoprì la politica nel 1936 e decise di non supportare le feste del consolato italiano; si unì alla Resistenza francese nel 1943, convinta dal suo dentista. Con l’entrata in guerra dell’Italia fascista, l’odio anti-italiano riemerse e provocò, di nuovo, “l’antica vergogna di sentirsi italiani”. Il sentimento avverso agli italiani era più forte nei paesi direttamente coinvolti nella guerra, come la Francia. Qui c’erano molti emigrati, tra cui Teresa Boschin, cameriera friulana che lavorava a Parigi. Alle prese di mira dei colleghi, che la chiamavano “l’italienne” rispondeva dicendo: “No! Sono friulana! Austriaca per nascita, italiana dopo la guerra!”. E aggiungeva nel suo diario: “Devo dire però che solo in Francia mi resi conto che l’Italia [ha] dato i natali a tanti illustri personaggi. Infatti, visitando il Louvre mi accorsi che tutti i pittori più celebri erano italiani […]”.

Il flusso migratorio riprese nel secondo dopoguerra: furono ben 7 milioni gli italiani che partirono dal 1945 alla fine degli anni Sessanta. Una destinazione molto vantaggiosa fu l’Australia, grazie all’ambizioso programma del Ministro dell’Immigrazione Arthur Caldwell. In meno di vent’anni arrivarono 200 mila italiani, tra cui Maria Rosaria Marino, una donna che vive tuttora in uno degli stati dell’Australia, la Tasmania, e che ci ha concesso un’intervista:

Per me [l’Australia] è come una seconda mamma, perché la prima certamente è l’Italia, la seconda è l’Australia. Poi Campobasso, Campobasso è una ferita aperta. Sì, amo l’Australia, ma il paese che ho lasciato is always a wound e non guarisce mai. Quando sono arrivata in Australia avevo 16 anni, mi sentivo come quando perdi i genitori, sei orfana. Anche se ho una certa età non ti puoi dimenticare del dolore, è stato difficile partire.

Maria Rosaria Marino

Allo stesso tempo Maria Rosaria ci ha raccontato di come gli italiani abbiano in qualche modo esportato i loro modi di vivere in Australia, in particolar modo attraverso il cibo e il modo di vestire. L’identità italiana quindi usciva rafforzata dal confronto con l’altro: “Dovevi vedere come gli australiani si tagliavano i capelli, li rasavano come pecore. Allora questi tre fratelli [italiani] hanno aperto questo barbiere, gli italiani andavano lì e loro si che erano presentabili con i capelli. Poi, piano piano, anche gli australiani hanno iniziato ad andare. Così è cominciata: piano piano con il mangiare, piano piano con i capelli…”

La figura dell’italiano che porta il proprio mestiere all’estero è ricorrente, come nella storia della famiglia Bacchelli, che nel 1956 aprì la Trattoria Italia a Lima, in Perù. Utilizzarono le loro capacità culinarie non solo per soddisfare i clienti ma anche per pubblicizzare il proprio locale: “S’iniziò con la sfoglia fatta dalla signora sul tavolo quasi sulla porta d’ingresso: serviva per pubblicità. Si facevano tortellini e tagliatelle tanto col mattarello che con la macchinina, si facevano lasagne e tortelloni oltre che gnocchi e crescentine fritte”. Sono queste esperienze fatte dagli italiani in tutto il mondo ad aver creato l’immaginario del made in Italy, molto utilizzato in patria per promuovere i prodotti e il know how italiani.

L’Italia ha assorbito le immagini di sé che si generavano nella coscienza di chi si confrontava con gli italiani all’estero, non sempre riuscendo ad armonizzare aspetti contraddittori. Certamente, dalle testimonianze raccolte emerge che il senso di comunità nato fuori dall’Italia è forte e, soprattutto, vedere il proprio paese dall’esterno genera un senso di appartenenza a volte mancante agli italiani rimasti in patria. È importante anche notare come la coscienza italiana sia il risultato di un composito confronto con altre culture e modi di vivere. Nella coscienza italiana non ci sono elementi rigidi e fissi, proprio perchè i nostri connazionali sono stati mobili nel mondo e hanno creato esperienze diverse a seconda del contesto cui si sono incontrati e scontrati.

Espressione di tutto questo è la testimonianza di Corrado Celada, musicista emigrato in Argentina ma convinto dalla moglie a rientrare in patria:

Così, in un attimo, mi lasciai alle spalle tutto quello che ero riuscito a realizzare a Buenos Aires; tornavo in Italia con i miei portafortuna – il mandolino e la chitarra – . Lasciavo sì l’Argentina, ma di essa portavo con me tutto ciò che mi aveva arricchito, e soprattutto quell’affascinante miscuglio di popoli, razze, etnie e religioni (indios, ebrei , tedeschi, italiani, spagnoli,… ) solo apparentemente inconciliabili, che lì non solo convivevano ma anche costituivano la spina dorsale della nazione; ciò mi fece capire quanto privo di senso fosse – e tuttora sia – il tentativo di voler tener separate e distinte le diverse genti del mondo, quando queste costituiscono, inevitabilmente, l’unica società cui realmente tutti noi apparteniamo, quella umana.

Corrado Celada

Bibliografia

Coniugi Bacchelli, Trattoria Italia, Fondazione Archivio Diaristico Nazionale, 1956

Anita Biaia, Antifascista, Fondazione Archivio Diaristico Nazionale, 1936

Teresa Boschin, Je suis furlana, Fondazione Archivio Diaristico Nazionale, 1940

Corrado Celada, La solita Italia, Fondazione Archivio Diaristico Nazionale, 1953

Anna Cento Bull, Modern Italy: A very short introduction, Oxford University Press, New York, 2016.

Paola Corti, Identità nazionale, transnazionalismo e glocalismo tra gli Italiani all’estero, Labimi/UERJ, 2013

Stefano Luconi, The Impact of Italy’s Twentieth-Century Wars on Italian Americans’ Ethnic Identity, in “Nationalism and ethnic politics”, 2007

Cesare Mainella, Pieni di amor patrio, Fondazione Archivio Diaristico Nazionale, 1914

Gilles Pecout, Il lungo Risorgimento. La nascita dell’Italia contemporanea (1770-1922), Mondadori, Milano, 2011