L’Italia nel guado

Le nazioni sono composizioni d’uomini; risorgono le nazioni quando risorge uno per uno a virtù ed a civiltà, a concordia di voleri la maggioranza degli uomini che le compongono

Ippolito Nievo, Due scritti politici

Lo ammetto. Mi dichiaro colpevole. Io, reo confesso, accetto la mia pena ed aspetto che la condanna venga eseguita. Aspetto pazientemente e aspetto ancora. Probabilmente aspetterò per sempre: nessuno verrà mai a far rispettare la legge. Ho peccato e tuttora pecco di far parte anche io di quel popolo, che ambisce dirsi italiano, che ripetutamente e consapevolmente pretende di non riconoscere sé stesso, considerandosi al di fuori, o meglio, al di sopra, della cosiddetta patria. Questo è, probabilmente, il più tradizionale dei sintomi dell’italianità: non sentirsi partecipi di un sentimento nazionale, contrastato e aborrito, che purtuttavia aleggia nell’aria, come un docile vento che muove le foglie ma di cui non si riesce a coglierne la direzione.

Addentrarsi nella grande questione riguardante l’identità nazionale italiana è impresa tanto ardua quanto essenziale. Decine di poeti, politologi e politicanti hanno provato nel corso dei secoli a definire questa nostra nazione, cercando di coglierne un senso che andasse oltre la considerazione dell’Italia come mera espressione geografica. Dal Sommo Poeta ai giorni nostri sembra però più facile identificare quegli elementi di cui il popolo italiano non dovrebbe, almeno così speriamo sia realmente, considerare come i veri valori su cui la nazione italiana, e l’appartenenza ad essa, sono fondate. Il collante di questa penisola che ci ostiniamo a chiamare casa è, a quanto pare, la mancata capacità dei suoi abitanti di oltrepassare le differenze locali, ed evidenziare quest’ultime più delle, certamente maggiori, somiglianze. La distanza che separa due italiani è tanto ampia quanto l’immaginazione che la crea. Essa è spesso inesistente, pretestuosa. Eppure, la si pensa presente, e si disprezza il proprio vicino senza averne apparente motivo. Predisposizione naturale di tutti gli uomini, si dirà. Nessuno lo nega, è più facile evidenziare i tratti che più ci differenziano rispetto a quelli che ci accumunano. Il popolo italiano ha però questa (in)capacità, al contrario di molti altri popoli, di non riuscire ad eliminare le distanze municipali quando ci si eleva a livello nazionale. Accade quindi che la patria venga ricordata maggiormente nella sconfitta, nella delusione, nella catastrofe; essa può così essere rinnegata a piacimento, demonizzata al minimo tentennamento, identificata come altro da sé, come versione amputata di quello che avrebbe potuto essere nella sua migliore versione (si, ma quale?). Da questa atavica tendenza tutta italiana si deriva un altro fondamento del nostro essere: la mancanza di responsabilità, la quale viene rivolta in una duplice direzione: verso noi stessi e verso gli altri, con implicazioni che collegano le due direttrici. L’Italia, intendendo cioè il popolo che la abita, ha sempre dimostrato profonde difficoltà ad accettare la sconfitta, a identificarsi con il perdente anche quando evidentemente lo è; tende a coltivare la cattiva abitudine di non volere fare i conti con sé stessa, con il proprio passato e la propria storia, mettendo in atto i due meccanismi di difesa più adatti: la rimozione e, come già detto, la proiezione. Rimuoviamo quanto riteniamo sia di troppo, e quel che non riusciamo a rimuovere lo consideriamo come una responsabilità altrui, come espressione di una componente malata della nazione a cui noi non apparteniamo, della quale non possiamo condividere il tragico destino. Questa la direttrice interna, quella che rivolgiamo verso noi stessi. Mentre quella esterna deriva anch’essa dalla proiezione delle proprie responsabilità, ma in questo caso suo oggetto sono elementi esterni ai nostri confini: se quel che succede in patria non ci piace, ci rivolgiamo speranzosi, trasportandoci direttamente dal municipale al sovranazionale, all’intervento di un veltro, per alcuni Provvidenza, politico, ideologico o economico che sia, che discenda in Italia per ristabilirvi la pace, l’ordine, e che sappia ripristinare, da straniero, il vero spirito patrio.

La delega della responsabilità implica però immancabilmente una rinuncia della propria libertà, della propria autonomia e indipendenza, della possibilità di poter determinare il corso della propria esistenza senza dover soddisfare necessità ed esigenze altre. Quel che l’Italia ha fatto e continua a fare va contro i suoi stessi interessi nazionali. Non c’è bisogno che io citi momenti, fasi storiche, personaggi, eventi, che dimostrino quanto è evidente a tutti noi.

Cosa fare quindi? Di fronte ad un quadro così desolante, destinato a riproporsi sotto diverse vesti ma sempre uguale a sé stesso? Come cambiare le cose? La strada percorribile sembra essere solo una: disperare; abbandonare speranze e buoni propositi; arrampicarsi sugli alberi e rifiutarsi di accettare la realtà dondolandosi da un ramo all’altro; recarsi all’agenzia delle entrate e fare di questa nazione legalmente bordello; comprarsi da sé il gesso e segnare le porte dove alloggerà il nemico, senza aspettare che sia lui ad approfittare della nostra ignavia. Apriamoci al mondo svuotandoci dall’interno. Rinunciamo ad essere qualunque cosa abbiamo mai avuto la velleità di considerarci.

Ma se fosse la perdizione ad essere la strada per ritornare al punto di partenza e provare a ricominciare? Certo, si potrebbe dire che la perdizione stia durando ormai da fin troppo tempo, e che il tragitto per giungere nuovamente da dove siam venuti sia fin troppo travagliato e tortuoso. Tuttavia, non è forse il riconoscimento dell’errore che ci offre la possibilità di redimerci? Non è la strada sbagliata che dovrebbe quanto meno darci l’idea di quella corretta? Siamo lenti ad imparare, questa è una certezza, ma così come si impara a zoppicare si può e si deve, per amor proprio, tornare a camminare dritti e coordinati.

L’incapacità di assumerci le nostre responsabilità ci ha portati, lungo la nostra storia, ad abbandonare la via maestra, quella che persegue il nostro interesse, per percorrere strade a noi sconosciute ma che ci siamo illusi fossero quelle a noi più adatte e congeniali: ci siamo sbagliati, abbiamo sempre sbagliato quando abbiamo preferito affidarci ad altri per cercare di salvare noi stessi: solo le nostre forze possono garantirci la libertà a lungo perseguita. La coscienza delle proprie colpe è solo il primo passo per la sua riacquisizione, d’altronde la società non si pone problemi per la cui soluzione non esistono già le condizioni necessarie e sufficienti. Troppo a lungo abbiamo indugiato in questa media condizione da esuli: provinciali e internazionali allo stesso tempo senza avere la capacità di percepire davvero noi stessi, di essere in grado di guardarci negli occhi, riconoscerci.

Sembra chiaro che gli italiani altro non possano fare che prendere consapevolezza del proprio assoggettamento, spesso autoimposto, acquisendo nuova forza per fuoriuscire da una condizione di minorità, eliminando la propensione al disfattismo, attenuando la preferenza accordata all’anti eroismo. La strada per ottenere maggiore consapevolezza di quello che siamo e, soprattutto, di quello che potremmo essere, è ostacolata solamente dalla nostra cecità, così oscura da non permetterci di distinguere, scorgendone solo la sagoma, gli amici dai nemici. Allo stesso tempo essa è però rivelatrice a tal punto dello spaesamento e della perenne labirintite del paese da farci sperare con Piero Gobetti nella reazione, auspicando “che ci sia chi avrà il coraggio di levare la ghigliottina, che si mantengano le posizioni fino in fondo”, chiedendo “le frustate perché qualcuno si svegli, il boia perché si possa vedere chiaro”. Con la testa incastrata tra la lama e la vita, ci renderemmo improvvisamente conto del fatto che essa è ancora attaccata al resto del corpo. Una fantasia, un sogno irrealizzabile sarebbe quello di divenire consapevoli dei propri mali senza che ci siano altri a condannarci a morte per averli lungamente perpetrati; prendere invece coscienza della grave infermità che ci affligge e, convalescenti, rimettersi pazientemente in salute, aggiustare la propria postura attraverso quotidiano impegno, sarebbe una soluzione preferibile e il primo passo dell’unica strada percorribile per cambiare sé stessi e l’Italia.

In una nazione ignota a sé stessa, ignara della sua (in)esistenza, tardiva nelle sue resipiscenze, molti italiani sono quindi accomunati da un tragico destino: morti ancor prima di morire trascorrono gran parte della propria vita a cercare di comprendere i mali dell’Italia, prima responsabile dello stato derelitto in cui riversa, perché “l’Italia non è serva degli stranieri, ma de’ suoi”. Così Carlo Cattaneo, tra i più importanti teorici risorgimentali, muore in solitudine l’anno prima della breccia di Porta Pia; Ippolito Nievo partecipa alla spedizione dei mille guidata da Garibaldi, e nello stesso anno muore in un naufragio nel mezzo del mar Tirreno mentre era in viaggio dalla Sicilia verso il continente; Piero Gobetti muore esule a Parigi in seguito a complicanze dovute ai ripetuti pestaggi subiti dalle squadre fasciste. Tre italiani che hanno saputo osservare l’Italia, scandagliarne le molteplici sfaccettature, entrare nelle pieghe della storia e farsi parte attiva dello scontro, non venendo mai meno all’impegno della lotta con pessimismo dell’intelligenza e ottimismo della volontà, non accettando compromessi più o meno storici, spingendosi oltre la palude che inabissa ogni speranza e atrofizza ogni slancio, oltrepassando quel guado in tragica solitudine, provando a scorgere, al di là di esso, un’Italia diversa: forse migliore, forse solo più libera.

Solamente nell’abisso de’ suoi mali può concepire il popolo della persuasione de’ suoi diritti che ancora non ha. […] Fra le sventure il nostro popolo ha raccolto due tesori: un tesoro d’odio; e lo deve al nemico stolto e feroce, che non seppe adoperar la vittoria se non a farsi aborrire: un tesoro di fiducia; e lo deve a sé medesimo, perché sa quanto ha potuto e quanto può

Carlo Cattaneo, Una teoria della libertà

Proprio su queste ultime parole sono impostati i lavori che animano questa bimestralità. Nel tentativo di sondare la coscienza italiana ci siamo imbattuti in questioni senza tempo e dibattiti contemporanei, problemi eterni e tentativi (mal)riusciti di fare l’Italia e gli italiani. Di fronte ad un passato che ci obbliga a evidenziarne le mancanze, proviamo a pensare ad un futuro, eterno presente, latore di maggiore consapevolezza e più radicata appartenenza.

Esemplare è l’articolo firmato da Sophia Grew sulla città di Trieste, città di confine tra l’Italia e il mondo. Il viaggiatore che giunge in città ben si rende conto della sua ambiguità. Legalmente italiana, all’apparenza lo spazio pubblico è animato da una pluralità di appartenenze difficilmente eliminabili.

Matteo Mercuri si interessa dell’annosa questione della Morte della Patria e del ruolo svolto dai maggiori partiti antifascisti dopo la Seconda guerra mondiale, illustrando il dibattito tra due dei più importanti storici del Novecento italiano: Ernesto Galli della Loggia e Emilio Gentile. Sempre di uno storico si occupa Marco De Tommasi analizzando gli scritti di Mario Isnenghi sulla storia della nazione italiana, stracolma di fratture, incomprensioni e tensioni mai sopite, cercando di individuare la figura più adatta al loro superamento.

Cercare di comprendere la coscienza nazionale italiana significa non poter prescindere dal considerare il rapporto che l’Italia ha con il suo mare: lo fa Alessandro Andronico che ci parla delle problematicità di una relazione non sempre idiosincratica.

Scritto a quattro mani, l’articolo di Elisa Stella e Gaia Perego si occupa del fondamentale ruolo che ha sempre avuto, e che ha anche oggi, il patrimonio culturale artistico italiano nella formazione dell’identità nazionale, interessandosi di diversi momenti dalla proclamazione dell’Unità all’Italia Repubblicana. Tancredi Roncadin si concentra invece sui metodi, gli obiettivi e le difficoltà, numerose e radicate, dell’insegnamento della filosofia nei licei italiani di oggi. La sua riflessione si interroga sulle incomprensioni legate alla diffusione della disciplina, legandole logicamente alle più ampie problematiche del sistema scolastico italiano.

Siamo poi successivamente andati più a fondo cercando di comprendere il popolo dietro la nazione. I ragazzi del progetto di Substoria hanno studiato, analizzando fonti alternative, l’identità italiana degli emigrati dal suolo patrio, i quali hanno contribuito e contribuiscono a creare una certa idea di Italia. Jozef Taiana cerca di mostrarci un’altra Italia, una versione parallela di quella ufficiale, più nascosta e forse più autentica, prendendo in considerazione il progetto Viaggio in Italia di Luigi Ghirri. Raphael Grew, infine, ci mostra la valenza culturale e politica della tradizione calcistica italiana: contrapposizioni sportive che solo apparentemente sembrano immotivate sono invece giustificate dall’analisi del passato storico dei particolarismi che hanno attraversato l’Italia prima e durante la sua formazione.

Siamo andati alla ricerca di un’Italia che scorre parallela a quella ufficialmente propagandata. Abbiamo indagato campi di vario interesse cercando di trarne uno spirito che li accomunasse. Abbiamo percorso una strada che, fatta di svolte, punti ciechi e pericolosi incroci, ci conduca passo passo ad un’ampia veduta del mare dove la via percorsa si interrompe, sfociando, come tutti i fiumi, nel vasto orizzonte di libertà che una navigazione priva di paure, nostalgie e velleitarismi può offrire.

Bibliografia

Carlo Cattaneo, Una teoria della libertà, Einaudi, Torino

Piero Gobetti, La rivoluzione liberale, Einaudi, Torino

Stefano Jossa, Un paese senza eroi, Laterza, Roma Bari

ALTRI ARTICOLI