Fare gli italiani: Pedagogia nazionale e beni culturali

La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.

Costituzione della Repubblica Italiana, Art. 9

La questione della tutela e della valorizzazione dei beni culturali del nostro Paese occupa un posto di primaria importanza fin dalla stesura della nostra Costituzione, tanto da trovarsi proprio tra i suoi principi fondamentali, quasi un unicum tra le carte costituzionali europee. Già dalle poche righe di questo articolo e dalle parole accuratamente scelte si possono ricavare importanti informazioni: il termine Repubblica indica che il ruolo di promozione e di tutela coinvolge e responsabilizza qualsiasi istituzione della Repubblica, dunque non solo lo Stato, le province e gli enti pubblici, ma anche le organizzazioni private e soprattutto gli stessi cittadini, i quali vengono direttamente coinvolti nel ruolo di promotori dello stesso patrimonio artistico. Altro termine interessante da analizzare è Nazione. Definire il patrimonio storico e artistico come proprietà di quest’ultima connota un forte carattere identitario a prescindere dalla forma di governo e dalle limitazioni territoriali: i beni culturali nazionali, in base alla legge italiana, non cessano di far parte del nostro patrimonio quando si trovano all’estero.

Ad essere coscienti di tale ruolo di primaria importanza giocato dal patrimonio artistico italiano, simbolo di una comune coscienza nazionale, non sono stati solo i Padri Costituenti. Infatti, fin dalla fondazione del Regno d’Italia nel 1861, si pensò a come porre il patrimonio artistico sotto il controllo di un’autorità centrale a cui fosse affidata la cura e il restauro dei monumenti e, contemporaneamente, si cercò di portare sotto l’egida statale oggetti di interesse comune che, fino a quel momento, erano rimasti nell’ambito della proprietà privata. L’intento, dunque, era quello di sviluppare una comune coscienza nazionale attraverso una progettualità identitaria nel processo di valorizzazione e tutela del patrimonio artistico. In tal senso vennero presi una serie di provvedimenti: in Emilia Romagna, il governatore provvisorio delle ex Legazioni pontificie Luigi Carlo Farini istituì nel 1860, in accordo con il Ministro dell’Istruzione Pubblica Antonio Montanari, la Regia Deputazione di Storia Patria per le Province di Romagna. Lo scopo era quello di dare rilevanza pubblica e di registrare ufficialmente quei luoghi “ove esistono le raccolte di antichi documenti” e scegliere quelli che “possono concorrere ad illustrare la Storia Patria”, cioè quelli che hanno valore di bene culturale. Tali interventi costituiscono il nucleo fondante dei Musei dell’Emilia-Romagna.

Per il neonato Regno i monumenti nazionali furono un importante strumento propagandistico per l’affermazione del potere laico su quello ecclesiastico (dotato di un patrimonio culturale e artistico con cui era difficile competere) tanto che con un decreto del 1873 fu concesso allo Stato anche il diritto di espropriazione di edifici religiosi per scavi archeologici. Uno dei personaggi che più si occupò di esercitare il controllo dello Stato sui monumenti storici fu Cesare Correnti, ministro della Pubblica istruzione. Su sua iniziativa furono presi una serie di provvedimenti in questa direzione, come, ad esempio, la compilazione di una lista di monumenti da dichiarare nazionali, e che quindi furono acquisiti dallo Stato. Furono principalmente due gli immaginari su cui l’Italia postunitaria tentò di proiettare il patriottismo degli italiani: in un primo momento la memoria dei martiri della libertà italiana, rappresentata in tantissimi e diversi monumenti, successivamente l’antica Roma.

Le missioni archeologiche italiane in Libia di inizio Novecento si accompagnarono a una nuova assimilazione retorica dell’Italia con Roma, che servì a preparare il terreno per la conquista militare e politica della regione: i primi archeologi italiani, sotto la direzione di Federico Halberr, arrivarono in Libia già nel 1910, per ritirarsi dalla regione proco prima dello sbarco delle truppe italiane nel 1911. Questa nuova definizione dell’italianità, portata avanti soprattutto dai nazionalisti guidati da Enrico Corradini, si contrapponeva con le posizioni dei futuristi, capeggiati da Filippo Tommaso Marinetti, che nel loro manifesto, pubblicato nel 1909, avevano affermato: “vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di professori, d’archeologi, di ciceroni e d’antiquari”. Nonostante le posizioni dei futuristi, però, la guerra italo-turca del 1911-1912 aprì una nuova stagione in cui le sorti dell’archeologia si sovrapposero a quelle della colonizzazione. Durante questo periodo, l’antico contribuì al processo di legittimazione della conquista militare e, contemporaneamente, favorì una nuova sensibilità dell’opinione pubblica in patria nei confronti delle vestigia romane e consacrò in una dimensione mitica la brutalità del contesto bellico. La nuova definizione della coscienza italiana si realizzò attraverso una narrazione del mondo arabo basata su cliché dell’orientalismo e contrapposta a un mondo romano visto invece come portatore di creatività e ingegno. Il progetto politico della Libia si intrecciava così ad una presunta liberazione delle vestigia antiche, che, secondo i colonizzatori, portavano i segni di un lungo disinteresse da parte dell’Impero Ottomano.

Dopo la marcia su Roma del 1922, l’atteggiamento corradiniano nei confronti dell’antico venne ereditato dal fascismo, che adottò la romanità come modello con cui confrontarsi sia in patria che nelle colonie. In Italia, le campagne di scavo e di restauro condotte nell’Urbe riportarono alla luce un patrimonio simbolico e ideologico antico cui dare nuovi significati. Nelle colonie, la pervasività dell’archeologia nel supportare il progetto mussoliniano, ai fini di rigenerazione della coscienza nazionale italiana, si giocò sull’ideale della sempiterna pax romana. Roma si sostituì ad Atene come custode della civiltà europea, mentre la trasmissione della cultura latina, nuovamente illuminata dal fascismo, fu il mezzo attraverso il quale realizzare questo passaggio di testimone.

La musealizzazione delle antichità fu parte integrante di questo processo, come spiegò il soprintendente ai monumenti e scavi di Rodi Luciano Laurenzi in occasione della presentazione dell’attività svolta dall’Istituto storico-archeologico FERT nel 1934: “se si vuol dare ad un popolo la coscienza della sua civiltà è necessario mostrargli i monumenti che l’hanno creata, le testimonianze delle lotte sostenute per conquistarla”. A questo contribuirono non solo mostre e musei, ma anche l’uso massiccio di nuove tecnologie come la fotografia, che sovente immortalava soldati e vestigia, creando una forte connessione tra il passato e il presente.

Alla nuova coscienza italiana fascista, dunque, contribuì largamente l’archeologia, in quanto offrì al regime un patrimonio culturale che permise la mitizzazione del passato e accrebbe la contrapposizione con l’altro e, allo stesso tempo, fornì spazi e momenti opportuni per la diffusione della nuova italianità al grande pubblico.

Il fil rouge che lega i tre periodi storici – quello dell’età liberale, dell’Italia fascista e del secondo dopoguerra – è la formazione, fittizia o meno, di una coscienza italiana che passa anche attraverso il riconoscimento e la tutela dei beni culturali. Il passato sembra quindi conoscibile solamente attraverso una narrazione che deve essere priva di revisionismi e avvicinarsi quanto più possibile alla realtà storica. Solo così può crearsi un legame virtuoso e felice tra la storia di un territorio e i suoi abitanti e un riconoscimento individuale e collettivo di chi siamo stati e di chi saremo.

Bibliografia

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