Dov’è finita la filosofia in Italia?

Dov’è finita la filosofia in Italia?

La filosofia è al centro del programma di studi dei licei italiani. Ciò è vero, ma determinare cosa significhi è meno semplice. Qual è, oggi, il ruolo della filosofia nella formazione educativa degli studenti liceali italiani? È possibile parlare del tema senza presupporre un giudizio di valore, sbilanciato dalla parte di chi la filosofia già la conosce? Poiché il problema riguarda anche questo.

In Italia, le direttive ministeriali per l’istruzione nei licei individuano nella filosofia un cardine dell’insegnamento del triennio, qualunque sia l’indirizzo specifico scelto dallo studente: al pari della lingua italiana, della storia, della matematica, della fisica, la filosofia è sempre presente. Eppure, giunto ormai vicino alla laurea triennale in Filosofia, mi interrogo sul valore di quanto mi ha insegnato il liceo e sull’urgenza di quanto, invece, avrebbe potuto insegnarmi.

Vi è qualcosa che non funziona, profondamente, nel modo in cui, oggi, la filosofia viene insegnata. La tradizione storiografica è particolarmente forte nel nostro paese, il che, per lo studente universitario, è uno strumento prezioso, poiché essa permette di acquisire una coscienza profonda della complessità delle tematiche filosofiche e così, auspicabilmente, cura nel coglierne le distinzioni tecniche. Tuttavia, è lecito chiedersi se il metodo storiografico sia egualmente il più adeguato a introdurre ex novo alla materia, soprattutto se si vuole fronteggiare onestamente il fatto che quanto evocato in ex-liceali dal ricordo di Hegel, di Platone o di Locke sia normalmente un senso di stranezza e bizzarria. Massimo Mugnai, in un recente libro intitolato eloquentemente Come non insegnare la filosofia, riassume quello che un po’ noi tutti conserviamo dei nostri filosofici studi: “si passa in fretta da quel tale che crede nel mondo delle idee a quello dell’io penso, a quell’altro che crede ci siano le monadi, a quello della dialettica ‘tesi-antitesi-sintesi’, a quell’altro che dice che senza Dio tutto è permesso, a quell’altro ancora che ha scoperto il predominio della tecnica… ecc. ecc., in un succedersi senza fine di frasi fatte”.

Gli obiettivi del Ministero sono giustamente ambiziosi e rappresentano una concezione del sapere umanistica, valorizzante l’individuo, il cittadino e la società; vi si ritrova un’idea di cittadinanza in cui la cultura gioca un ruolo fondante ed ha un valore in sé. Ma l’autonomia valoriale della cultura significa qualcosa agli occhi di un quindicenne? Perché diamo per scontato che così dovrebbe essere? Jonathan Barnes, per anni professore a Oxford, scrisse in una postfazione all’Ideografia di Gottlob Frege (il padre della logica matematica) che il motivo per cui studiare logica è che essa è un bene in sé, ragione equiparabile a quella per cui ci piace andare in campagna o gustare una coppa di champagne. Ora, io non credo che le cose stiano esattamente così e per comprendere perché la logica, o la filosofia, siano un bene in sé bisogna, esattamente, avere già le motivazioni per leggere di logica o di filosofia. Il paragone può apparire forzato ma un ragazzo, probabilmente, può capire da solo perché è bella la campagna e non perché l’Ideografia (un tentativo di costruzione di un linguaggio del pensiero ispirato all’aritmetica) è affascinante. I nostri licei non introducono alla filosofia, bensì la spiegano come se fosse già chiara agli occhi degli studenti. Per questo io credo che la realizzazione degli obiettivi formativi sia ambigua – sia nei dettagli teorici che nella realizzazione pratica – e, di conseguenza, che essa sia capace di generare effetti contrari a quelli auspicati.

In Italia, l’insegnamento della filosofia nei licei è regolamentato, principalmente, dal decreto 89 del 15 marzo 2010 e dal decreto 211 del 7 ottobre dello stesso anno. È soprattutto questo secondo, contenente le linee guida per le specifiche materie, a indicare gli obiettivi generali dell’insegnamento filosofico nel secondo biennio e nel quinto anno (triennio). Il decreto differenzia le direttive per indirizzo: poiché quelle qui di interesse rimangono omogeneamente invariate, non verrà fatta distinzione circa questo punto. È importante tenere a mente, inoltre, che la filosofia è prevista esclusivamente negli indirizzi liceali.

Se il preambolo generale (si veda l’allegato A) del decreto 211 è incoraggiante e ricorda come la scuola non debba mai essere nozionismo, sottolineando l’importanza di far comprendere ciò che viene insegnato, invece, a consultare i provvedimenti specifici circa la filosofia, emergono i primi dubbi. Al triennio, il piano didattico riguarda l’intera storia della filosofia occidentale, dai presocratici ai giorni nostri, proponendosi ad esempio di giungere, nell’arco di due anni, da Platone a Hegel. Inoltre, se la lista di autori è prima facie più ridotta, in realtà, con cura filologica, viene osservato che per comprendere è necessario contestualizzare e, allora, con celeri ritocchi, ci si ritrova con un programma di ben diversa stazza (teorica e cartacea). E così, per studiare Socrate, Platone e Aristotele bisognerà occuparsi dei presocratici, dei sofisti e poi della filosofia ellenistica romana e dei neoplatonici; per comprendere Agostino e Tommaso, sarà bene conoscere la Scolastica dalle origini al ‘300; per Galileo, Cartesio, Hume, Rousseau, Kant e Hegel, servirà tutta la storia del pensiero da Galileo a Hegel (avendo cura di saltare al secondo giro Galileo, Cartesio, Hume, Rousseau, Kant e Hegel). Infine, l’ultimo anno si afferma essere dedicato alla filosofia contemporanea, da dopo Hegel ai giorni nostri. Ma ciò puntualmente non accade, perché, innanzitutto, spesso si arriva al terzo anno ancora con numerosi strascichi del secondo e, inoltre, la filosofia novecentesca viene appena abbordata. Anche per l’ultimo anno, le richieste sono assai esigenti, ossia:

 [n]ell’ambito del pensiero ottocentesco sarà imprescindibile lo studio di Schopenhauer, Kierkegaard, Marx, inquadrati nel contesto delle reazioni all’hegelismo, e di Nietzsche. Il quadro culturale dell’epoca dovrà essere completato con l’esame del Positivismo e delle varie reazioni e discussioni che esso suscita, nonché dei più significativi sviluppi delle scienze e delle teorie della conoscenza. Il percorso continuerà poi con almeno quattro autori o problemi della filosofia del Novecento, indicativi di ambiti concettuali diversi scelti tra i seguenti: a) Husserl e la fenomenologia; b) Freud e la psicanalisi; c) Heidegger e l’esistenzialismo; d) il neoidealismo italiano e) Wittgenstein e la filosofia analitica; f) vitalismo e pragmatismo; g) la filosofia d’ispirazione cristiana e la nuova teologia; h) interpretazioni e sviluppi del marxismo, in particolare di quello italiano; i) temi e problemi di filosofia politica; l) gli sviluppi della riflessione epistemologica; i) la filosofia del linguaggio; l) l’ermeneutica filosofica.

È possibile studiare tutti questi autori capendoci qualcosa? Al di là di comprendere la connessione delle etichette filosofiche (ad esempio, che un empirista non è un razionalista), che cosa può insegnare davvero un programma di questa mole? Gli studenti ne escono cerebralmente traumatizzati, soprattutto tra il secondo e il terzo anno, dopo lo scatto Kant-Hegel per riprendere il ritmo del programma, e non ricordano spesso alcunché. O meglio: se si ricorda, si ha appreso solo nomi di correnti e istruzioni generali per nomi di correnti, ma la rapida sequenza degli autori (contemporaneamente all’esistenza dell’impegno di altre materie al di fuori della filosofia) fa sì che la serie di nozioni appiccicate in testa sia presto rimossa. Inoltre, se la grande maggioranza di studenti non proseguirà lo studio della filosofia all’università, non è chiaro quale sia il fine di tutta questa fatica, al di là del fatto di sapere che Kant è esistito a un certo punto e ha detto qualcosa di oscuro che in qualche modo è filosofia.

Allo stesso tempo, anche alla luce della mia contingente esperienza accademica, non credo che questo metodo sia d’aiuto neanche per gli studenti universitari di filosofia. Imparare nomi generali, pseudo-concetti mai approfonditi, non introduce alla filosofia ma crea piuttosto l’illusione di poter parlare filosoficamente semplicemente computando con una certa verve una stringa casuale di termini altisonanti; molto più d’aiuto sarebbe introdurre al liceo ad argomenti filosofici strutturati, attraverso lo studio di alcuni problemi attraverso alcune argomentazioni di alcuni autori (e non per ogni x tale che x è un autore: etica, conoscenza, politica, religione).

Personalmente, ho l’impressione che la cura per l’interesse dei liceali verso la filosofia sia sempre più lasciata al caso, all’incontro con un professore particolarmente appassionato o a letture fatte per conto proprio. Come ho detto, si dà per scontato che la filosofia sia interessante e non se ne mostra il senso, come se un’introduzione ad essa non fosse necessaria: se per materie come fisica o matematica in cinque anni viene affrontato quanto sarà poi svolto in qualche mese di università (perché si ritiene importante semplicemente introdurre adeguatamente alla materia), invece in filosofia viene svolto in tre anni quanto un ricercatore non affronta in una vita.

A quest’ultimo riguardo, si potrebbe obiettare che la formazione nelle scienze umane ha un valore legato, in modo più generale, con la costruzione della persona e che, dunque, chi studiasse solo alcuni casi della filosofia svilupperebbe delle carenze come qualcuno che conoscesse solo parzialmente la Storia. Tuttavia, bisogna ricordare che nei licei è previsto l’insegnamento della filosofia, e non della storia della filosofia, e che quest’ultima sia ugualmente essenziale per l’istruzione di un cittadino è almeno fortemente discutibile. Nel suo libro, Mugnai prende di mira, in particolare, i manuali liceali, criticandone la costruzione meramente storico-diacronica e la mole di pagine. Inoltre, osserva sempre Mugnai, in essi viene lasciato sempre meno spazio agli autori della filosofia, che vengono sostituiti da riassunti generali delle dottrine e da collegamenti con altre materie. È lecito quindi chiedersi se lo studio pedissequo di un manuale può davvero introdurre alla filosofia, ossia se esso possa far capire cosa si stia facendo quando si fa filosofia. Per questo Mugnai propone, ad esempio, un nuovo tipo di manuale, di dimensione più ridotta e organizzato per aree tematiche sincroniche (come l’etica, la teoria della conoscenza, la filosofia politica) attraverso cui affrontare alcuni grandi problemi della filosofia, come il tema del libero arbitrio o il concetto di verità. Effettivamente, concentrarsi solo su alcune questioni monografiche permetterebbe di mostrare la validità dell’argomentazione filosofica e d’introdurre gli studenti all’importanza di certi problemi e, forse, all’interesse per essi; in caso contrario, è ben più difficile dimostrare la realtà di discussioni in cui, di settimana in settimana, si dice tutto e il contrario di tutto.

Un altro punto su cui Mugnai richiama l’attenzione, e che rappresenta anche l’altra proposta da lui suggerita, è l’importanza della lettura diretta dei testi filosofici. Se questo punto è sottolineato anche dai decreti normativi, nella pratica non è però sufficientemente attuato, quando permetterebbe di illustrare concretamente cosa sia un’argomentazione filosofica: si potrebbe, ad esempio, scegliere un testo su cui concentrarsi per qualche mese, da leggere e commentare in classe, affidando delle letture per casa e permettendo discussioni con gli studenti in aula. Certo, in questo modo il numero degli autori calerebbe drasticamente rispetto al presente, e forse anche il numero di dibattiti toccati: non sarebbero, tuttavia, più numerosi i temi trattati e discussi realmente? Se questi problemi sono reali, allora è bene chiedersi se un ripensamento serio dell’insegnamento non sia davvero necessario.

In realtà, il Ministero ha emesso, in anni recenti, un documento intitolato Orientamenti per l’apprendimento della Filosofia nella società della conoscenza (commissionato ad un gruppo tecnico), nel quale si suggeriscono alcune proposte per un ripensamento dell’insegnamento filosofico soprattutto in chiave di “competenze”. Il documento si propone di illustrare il ruolo dell’insegnamento filosofico, indicandone, inoltre, diverse ricadute positive in altre materie o capacità dello studente. Tuttavia, non ritengo che l’approccio lì delineato sia soddisfacente. Al di là dei tanti termini in lingua inglese, il documento rimane molto generale e, confesso, non sono riuscito a trovarvi un passo in cui si trattasse specificatamente (in modo approfondito e dettagliato) di ciò che debba fare la materia filosofia nelle ore liceali, di quali obiettivi concreti essa debba raggiungere e del motivo chiaro per cui essa sia importante in quanto filosofia. Vi sono delle buone idee, come la divisione dell’insegnamento in una parte monografica e in una generale, come l’importanza di insegnare il ragionamento logicamente corretto e della lettura dei classici filosofici; tuttavia, quando si giunge a discutere di ciò che è inerente strettamente alla filosofia e non valido in generale per ogni materia, il testo è vago. Cito un passo:

l’apprendimento della filosofia può contribuire a favorire la maturazione delle suddette competenze in modo da rendere ogni studente un autonomo costruttore di sé stesso: per certi versi, la ragione di tale possibilità sembra scaturire dall’etimologia stessa della parola, dallo spazio semantico che prospetta e dal sentimento che richiama, appunto ϕιλο e σοϕία […] filosofia come capacità di scorgere il legame in ciò che è apparentemente slegato, allora, raffigura una possibilità formativa da destinare a ogni studente, al fine di sviluppare in lui la consapevolezza della relazione come condizione del sapere, sia dal punto di vista dell’oggetto che da quello del soggetto e della comunità sociale.

Ritengo che considerazioni di questo genere siano troppo vaghe e non aiutino lo studente. Non soltanto per i motivi che ho elencato sopra, ma anche perché un approccio di questo genere rischia di essere deleterio per la risposta da parte dei ragazzi. Esso rischia, cioè, di dipingere la filosofia come qualcosa di borioso, tronfio, assolutamente non interessante e anche un poco folle (“neri di pustole, butterati, gli occhi cerchiati da anelli” e “questi vegliardi sono sempre intrecciati alle loro seggiole”, direbbe Rimbaud ne I seduti).

E allo stesso tempo, tentativi di avvicinare la scuola ai ragazzi non possono essere fatti attraverso stratagemmi, come la flipped-classroom o la digitalizzazione delle attività (come se la scuola dovesse diventare un gioco giocoso per poter risultare interessante agli occhi di uno studente o di una studentessa: ma così, si considera poco seria la scuola stessa o poco capaci studenti e studentesse?). Anche in questo caso, infatti, il risultato è la polverosità e un senso di disagio da parte degli studenti, anglosassonamente flippati o cooperatively educati. Il problema è rilevante e riguarda ciò che si potrebbe chiamare la formazione del futuro della nostra nazione, ma che credo denoti la stessa importanza se denominato semplicemente l’educazione dei giovani. Questioni come quella qui delineata sono centrali per l’Istruzione nel nostro paese, tema che è troppo importante per non essere affrontato con una cura estrema, anche a causa delle conseguenze silenziose, ma sempre più lampanti, degli anni di Covid-19 sul rapporto tra giovani e scuola.

Per quanto riguarda la filosofia, concentrarsi solo su alcuni argomenti filosofici, permetterebbe di smaltire questi detriti in modo efficace: sarebbe possibile ottenere una spiegazione approfondita, con la possibilità di mostrare i nessi concettuali retrostanti a un dato problema, nonché si potrebbe avere dialogo con gli studenti, i quali forse, capendo qualcosa di più, porrebbero più questioni. Dovremmo rinunciare al timore, diffuso circa le materie umanistiche, di dover insegnare tutto e di dover tutto menzionare: questo atteggiamento tradisce l’idea che in fondo così bisogna fare perché queste materie, dopo il liceo, saranno abbandonate per sempre. Ma la nausea diffusa tra studenti a causa del massivo enciclopedismo dovrebbe indurci a osar questionare maggiormente il nostro metodo.

Bibliografia

Decreto del Presidente della Repubblica del 7 ottobre 2010, n. 211

Ministero per l’Istruzione, l’Università e la Ricerca, Direzione Generale per gli Ordinamenti Scolastici e la valutazione del sistema nazionale di istruzione, Orientamenti per l’apprendimento della Filosofia nella società della conoscenza, 2017

Frege, Gottlob, L’idéographie, tr. fr. e prefazione di C. Besson, postfazione di J. Barnes, Parigi, Vrin, 1999

Mugnai, Massimo, Come non insegnare la filosofia, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2023

L’Italia e il suo mare: un Mediterraneo da riscoprire

L’Italia e il suo mare: un Mediterraneo da riscoprire

Aldo Moro, in una delle sue citazioni più famose, parlò di Mediterraneo ed Europa come due soggetti inscindibili tra loro, nell’espressione da lui usata ricorda come “l’Europa intera è nel Mediterraneo”, sottolineando come nessuno, men che meno l’Italia, dovrebbe scegliere se appartenere all’uno o all’altra; ma per quale motivo Moro sentì il bisogno di esprimersi così decisamente riguardo al Mediterraneo?  

Ai giorni nostri, ancor più che ai tempi della cosiddetta Prima Repubblica, è diventato imprescindibile trattare approfonditamente il Mediterraneo e la sua evoluzione per poter immaginare il futuro del nostro paese. Purtroppo ciò accade sporadicamente e in queste eccezioni difficilmente viene descritto adeguatamente il contesto geopolitico mediterraneo nel quale l’Italia si trova ad annaspare. Si tende a trattare superficialmente il Mediterraneo e le sue vicende, parlando sempre dell’Italia come soggetto passivo che subisce solamente, incapace di ritagliarsi un ruolo attivo e dinamico, un soggetto perennemente incompiuto che non riesce mai ad abbracciare fino in fondo la propria natura mediterranea; invece si cerca troppo spesso di accostarsi ed inserirsi in contesti lontani, geograficamente e idealmente, dalle necessità italiane, contesti narrati come vitali e imprescindibili per il futuro del paese anche se così non è. Da cosa nasce questa negligenza e distanza dal mare è ciò che desidero approfondire; nello specifico cercherò di spiegare, secondo ciò che ho potuto esaminare, quali sarebbero le cause storiche della distanza italiana dal suo mare. Per poter capire cosa sia oggi il Mediterraneo per l’Italia ho ritenuto pertinente parlare di un periodo storico specifico, definito da Egidio Ivetic nel suo Il Mediterraneo e l’Italia l’epoca della “Grande Italia”, che più di ogni altro sembrerebbe aver condizionato il rapporto tra il nostro paese e il mare.  

Per comprendere meglio la dimensione ed il legame tra la “Grande Italia” e il Mediterraneo è necessario accennare brevemente a quali furono le maggiori influenze che di volta in volta hanno segnato quest’epoca della nostra storia nazionale. Ogni Italia, repubblicana, liberale, nazionalista o fascista che fosse, nel rapportarsi con il mare incontra e ha incontrato sul suo percorso i due soggetti che più di ogni altro hanno plasmato il rapporto della penisola con il Mediterraneo: Roma e Venezia. 

Il peso specifico che queste due grandi città, che in differenti epoche fecero del Mediterraneo la loro ragion d’essere, hanno avuto sulla classe politica e sull’opinione pubblica italiana tra il 1908 ed il 1943, date convenzionali per identificare il periodo della “Grande Italia”, è stato enorme. Il primo accostamento tra l’idea di un’Italia geografica limitata ai confini riconducibili a quelli odierni risale alla Roma di Augusto; i romani, nati come potenza a vocazione prettamente terrestre, capirono in fretta come la posizione geografica della penisola italiana fosse ottimale per ottenere un dominio completo dell’intero Mediterraneo e si trasformarono in potenza anche marittima, riuscendo a raggiungere, ad oggi unici in questo, l’unità totale del bacino del Mediterraneo. Secoli dopo toccò a Venezia riscoprire a pieno questa dimensione mediterranea dell’Italia. La Serenissima più di ogni altra città marinara italiana e mediterranea visse il mare, propaggine della città e nucleo dell’esistenza dello “Stato da Mar” veneziano; l’impero mediterraneo veneziano non era solamente una pura e semplice necessità commerciale, bensì rappresentava molto di più, un’estensione dello Stato necessaria a proiettarne il potere in ogni angolo di quel mare. Non fu certamente un caso che proprio Venezia, maturata al fianco di Costantinopoli, riuscì ad ereditare quella dimensione marittima espressa da Roma, trasformando l’Adriatico in un “piccolo Mare Nostrum” esclusivamente veneziano, per secoli intoccabile anche da soggetti ben più potenti della città veneta. Con la scomparsa di Venezia svanì anche l’interesse per il mare per quasi un cento anni, e solo verso la fine del XIX secolo una riscoperta del Mediterraneo travolse il neonato regno. 

La sconfitta di Lissa nel 1866 e l’apertura del canale di Suez l’anno seguente furono i due eventi che segnarono la rinascita del navalismo – inteso come propensione di una nazione al suo essere marittima – in Italia. L’Italia riuscì in parte a riscoprirsi. Nonostante il fallimento di Lissa fosse di modeste proporzioni venne immediatamente vissuto come una terribile sconfitta in termini emotivi e retorici di molto sproporzionati. Dopo un decennio di vera e propria avversione per il mare quel “disastro” divenne la spinta per risvegliare il navalismo italiano. L’avvicinamento al mare fu strettamente collegato alle nuove scoperte geografiche, all’esistente ordine internazionale e all’apogeo dell’imperialismo europeo; il navalismo è il presupposto ideologico all’imperialismo e non fu un caso che proprio in quel periodo l’Italia iniziò a muovere i primi passi verso una nuova politica di potenza, ponendo le basi della “Grande Italia”, grande più per retorica e invocazione che per realtà dei fatti. L’idea del dominio del mare raggiunse nel paese la sua massima espressione tra il 1908 ed il 1943, date non casuali; secondo Egidio Ivetic l’alba della “Grande Italia” andrebbe individuata con la prima rappresentazione del dramma La nave di Gabriele D’Annunzio, esternazione di quell’ardente desiderio di potenza declamata e ricercata nell’Adriatico e nel Mediterraneo; mentre il tramonto di questo “sogno” di dominio marittimo viene collegato all’affondamento della nave da battaglia Roma il 9 settembre 1943, durante il suo viaggio verso i porti anglo-americani in seguito alla firma dell’armistizio. La perdita della massima espressione della produzione cantieristica italiana segnò simbolicamente la morte di ogni aspirazione di dominio nel Mediterraneo.  

Dal 1914 il mare, nello specifico l’Adriatico, divenne l’ossessione del Regno d’Italia; mare che più di ogni altro doveva ritornare italiano come ai tempi di Venezia. Il possesso dell’Adriatico avrebbe garantito un predominio economico, militare e politico su gran parte del Mediterraneo. Tuttavia il raggiungimento di tale obiettivo sarebbe derivato obbligatoriamente da uno scontro con l’impero asburgico e da un possibile scontro con i popoli slavi, i quali non nascondevano le proprie aspirazioni adriatiche. Il Mediterraneo, negli anni del primo conflitto mondiale, passò in secondo piano dato che il suo controllo era in mano agli alleati inglesi e francesi; durante il conflitto con Vienna l’Adriatico non vide quasi nessuna battaglia, rimanendo un fronte secondario. Dopo la resa austriaca e la dissoluzione dell’Impero austro-ungarico, i timori italiani si avverarono con la comparsa dello stato jugoslavo, successore di Vienna in quel mare come rivale dell’Italia e erede dell’intera flotta asburgica, attaccata quindi dai reparti speciali italiani durante il passaggio di bandiera della corazzata Viribus Unitis al neonato regno. Nonostante il dominio italiano non fosse totale, Roma riuscì ad ottenere quantomeno un netto predominio sugli stati balcanici affacciati sull’Adriatico. Le promesse fatte dagli Alleati dell’Intesa all’interno del Patto di Londra non vennero mantenute, il controllo assoluto sull’Adriatico non si materializzò, suscitando l’indignazione dell’opinione pubblica italiana che valutava quello come un mare d’interesse vitale per il paese, ancor di più del Mediterraneo. 

In seguito all’ascesa di Mussolini e del partito fascista, la volontà di dominio sul mare non mutò, anzi prese toni più accesi. Sebbene la situazione di tensione nell’Adriatico non si estinse completamente, il regime concentrò le sue attenzioni sul Mediterraneo, considerato, dato il precedente romano del “Mare Nostrum”, lo spazio naturale e storico del paese. La romanità invocata dal partito andava di pari passo con la mediterraneità del paese: questo mare doveva essere un’unica cosa con l’Italia fascista, la sua parte allargata da controllare direttamente o indirettamente. Il dominio del Mediterraneo tanto invocato da Mussolini era inimmaginabile, nella realtà non esisteva alcuna possibilità di espansione: Londra controllava Suez, Gibilterra, Malta, Cipro e la Palestina, oltre ad avere relazioni strette con le potenze minori mediterranee; Parigi dominava il Mediterraneo occidentale, il Libano e la Siria. Roma dal canto suo controllava il Mediterraneo centrale, esclusa Malta, e il Dodecaneso, ponendosi trasversalmente rispetto all’asse ovest-est di dominio inglese. L’invasione dell’Etiopia e la successiva crisi dei rapporti con l’Inghilterra furono quindi la logica conseguenza dell’impossibilità di espansione nel bacino del Mediterraneo.  

La propaganda del regime spinse sulla necessità di creare una grande comunità imperiale nel “Mare Nostrum”, nella quale tutte le sponde del Mediterraneo sarebbero state, direttamente o indirettamente, sotto il controllo italiano. Molti dei territori da inglobare nell’Italia metropolitana rispecchiavano i possedimenti degli stati italiani nel 1750, con il Mediterraneo come fulcro del nuovo impero italiano. Il mediterraneismo fascista non era altro che un programma ideologico per preparare il popolo italiano a dominare, dall’alto della propria superiorità etnica e culturale latina, più declamata che realmente sentita, lo spazio mediterraneo. La guerra dal 1940 al 1943 fu un vero e proprio conflitto mediterraneo anglo-italiano, immaginato per anni ed infine esploso con l’ingresso italiano al fianco di Hitler. La drastica sconfitta della Marina italiana, tutt’altro che di secondo livello, aprì gli occhi e mise allo scoperto tutta quella fallimentare e pretenziosa retorica decantata per un ventennio. 

In seguito al fallimento bellico e all’ingresso nella Nato il paese non volle e non dovette più occuparsi di quel mare. Il Mediterraneo cadde sotto il controllo anglo-americano, precludendo a Roma ogni possibilità di indipendenza navale. Tralasciando il fattore strategico-militare della sconfitta nella Seconda guerra mondiale, furono la stessa mentalità italiana e il rapporto con il suo mare a subire un colpo devastante: l’Italia, nel processo di rigetto e chiusura della pagina del fascismo, abbandonò la dimensione marittima, che troppo ricordava quella retorica di dominio e controllo del mondo mediterraneo tanto propagandata negli anni della dittatura. Qui sorse il problema che ancora oggi affligge l’Italia: parlare di un interesse nazionale italiano nel Mediterraneo crea e ha creato parallelismi, molte volte insensati, con l’imperialismo fascista. L’Italia ha deciso sin dalla nascita della Repubblica di vivere il Mediterraneo con una postura da attore ormai comprimario, destinato ad assecondare passivamente le scelte degli altri soggetti. Una piccola eccezione ebbe luogo tra gli anni 50 e 60, quando, grazie a personaggi come La Pira, Moro, Mattei e Fanfani il paese cercò di ritagliarsi un ruolo di dialogo e collegamento con il mondo mediterraneo, tentando di risvegliare l’Italia dal torpore e dalla passività. Tuttavia, dopo questa breve parentesi, si ritornò al punto di partenza, continuando a subire passivamente, anche a scapito dei propri interessi, l’evoluzione del Mediterraneo. La natura mediterranea venne messa da parte a favore di un tentativo di avvicinamento alla dimensione atlantica e mitteleuropea. 

Ad oggi poco è cambiato, l’Italia rimane titubante ad accettare la propria natura mediterranea, ricercando invece l’appartenenza a contesti che solo parzialmente si accostano alle necessità italiane, non riuscendo a capire che la mutazione del contesto internazionale, con il lento disimpegno americano in diversi teatri, in parte anche da quello mediterraneo, darebbe la possibilità all’Italia di ritornare a vivere attivamente il mare da cui tanto dipende e che tanto influenzerà il futuro della nazione. Riscoprire l’interesse nazionale e la stessa coscienza mediterranea dell’Italia sarebbero sicuramente i primi passi verso un futuro meno incerto. 

Bibliografia: 

Egidio Ivetic, Il Mediterraneo e l’Italia, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2022 

Patria o morte? L’8 settembre e la crisi della nazione

Patria o morte? L’8 settembre e la crisi della nazione

Settembre, 1992. Sono passati nove mesi dallo scioglimento dell’Unione Sovietica e sette dall’inizio di Mani pulite con l’arresto di Mario Chiesa. Fine della Guerra fredda e inizio della crisi della Repubblica dei partiti. Mentre nell’Europa centro-orientale si sta compiendo la rivincita dello stato nazionale, in Italia lo Stato repubblicano sta vivendo lo sconvolgimento più grave dalla sua fondazione. É in questo clima che Ernesto Galli della Loggia, non ancora editorialista del Corriere della Sera, decide di rivolgersi al pubblico del Convegno di Trieste su Nazione e nazionalità in Italia con una relazione dal titolo La morte della patria. Questa formula, il cui obiettivo è quello di esprimere la crisi dell’idea di nazione in Italia a seguito della tragedia dell’8 settembre, viene ripresa dal De profundis di Salvatore Satta, un testo carico di dolore, scritto tra il giugno del 1944 e l’aprile del 1945, nel quale l’autore riflette sulla disfatta italiana e sulla catastrofe della guerra civile. Alla conferenza di Galli della Loggia, poi pubblicata in volume dall’editore Laterza, fa seguito un proliferare di scritti sulla lunga crisi del sentimento nazionale italiano, tanto da far parlare Emilio Gentile – non senza una nota polemica – di un vero e proprio genere letterario della morte della patria. É però proprio questo “coro di lamentazioni patriottiche” a spingere lo storico molisano a pubblicare nel 1997 una storia del mito della nazione nell’Italia contemporanea. Pur rigettando l’attribuzione del suo testo a quell’osteggiata varietà, Gentile ammette che “alla pubblicazione del libro non fu estranea la lettura del genere letterario della «morte della patria»”. In effetti, il suo obiettivo è proprio quello di moderare e correggere quelli che considera i frettolosi giudizi emersi negli anni precedenti. Intento opposto a quello di Galli della Loggia, che invece vuole esattamente dare il là a un dibattito pubblico sull’idea di nazione italiana. Ci troviamo così di fronte a due storici contemporanei, separati da differenze di metodo e di intenzione, che nel loro ruolo di intellettuali intervengono su una questione di (massimo) pubblico interesse, innescando una disputa a distanza. É possibile sviluppare un confronto tra le due posizioni intorno alla valutazione data dai protagonisti al ruolo svolto da tre fattori: l’8 settembre, il Partito comunista e la Democrazia Cristiana.

Il giudizio riguardo la catastrofe dell’8 settembre è sostanzialmente concorde. Lo “spettacolo della dissoluzione dello Stato” all’indomani della proclamazione dell’armistizio, incarnato dallo sbandamento dell’esercito e dalla fuga del Re, è ciò che ha prodotto la disgregazione dell’identità nazionale, rappresentata dall’idea dell’Italia come grande Stato nazionale ereditata dal Risorgimento. Vi sono comunque due elementi di distinzione: se Galli della Loggia non esita a vedere specificamente nell’8 settembre lo spartiacque tra le due fasi della storia dello Stato, in quanto “simbolo del fallimento rovinoso in cui è destinata ad incorrere qualsiasi risposta” ideologica alla domanda riguardo la possibilità per gli italiani di essere nazione, Gentile è indubbiamente più cauto. Egli attribuisce infatti tale ruolo di cesura al combinato disposto degli eventi del triennio 1943-46: solo nel loro insieme “trascinarono nella rovina anche la fragile identità nazionale che, pur con tutti suoi limiti, ambizioni e illusioni, gli italiani avevano conquistato durante gli otto decenni di vita unitaria”. Vi è infine il ruolo della desolante disintegrazione dell’esercito, su cui Galli della Loggia si concentra molto di più e a cui dà un significato prima di tutto morale, in quanto immagine “della rinuncia a battersi, della resa alla paura, del disintegrarsi della volontà e della capacità di durare e resistere da parte dello Stato”. Gli unici attori rimasti a poter interpretare la coscienza nazionale erano i partiti antifascisti, ritrovatisi padroni delle macerie dello Stato.

É sulla valutazione del ruolo di questi che le posizioni tra i due storici differiscono: se Galli della Loggia ne descrive l’azione come sostanzialmente antinazionale, Gentile è più disposto a sottolinearne il recupero di alcuni aspetti della tradizione patriottica italiana. Il primo nota una ambiguità di fondo comune a tutti i partiti della Resistenza, i quali si sono presentati come i vincitori al termine di una guerra che il Paese aveva perso: va infatti notato “il carattere nazionale, e non già fascista, che la sconfitta ebbe agli occhi degli Alleati, e che quindi ad essa va anche storicamente attribuito”, confermato dall’iniquità del Trattato di pace. A ciò si aggiunge il rifiuto da parte della Resistenza di accettare l’espressione guerra civile, che non è stato altro che “il tentativo – in tutto e per tutto analogo a quello fascista, ma solo rovesciato di segno – di confiscare a vantaggio di una sola parte l’idea di nazione”, causa del fallimento da parte della stessa nel divenire un mito di fondazione adeguato per il rinnovato Stato da innestare nell’identità nazionale. Diversamente, pur riconoscendo “una progressiva estraniazione degli italiani dal mito nazionale” perpetrata dalla Repubblica nata dalla Resistenza, Gentile individua al suo interno due difensori dell’idea di nazione: il Partito comunista e il mondo cattolico.

Vediamo il primo: facendo uso delle riflessioni di Gramsci sulla storia e sulla cultura d’Italia, il PCI avrebbe costruito una “mitologia nazionalcomunista”, che si sarebbe presentata come una nuova forma di italianismo: l’arrivo al governo da parte dei comunisti sarebbe stato il compimento della rivoluzione nazionale iniziata dal Risorgimento, la cui classe dirigente liberale avrebbe lasciato il testimone all’intellettuale organico gramsciano. Ma, sempre a parere di Gentile, è stato l’antifascismo l’elemento attraverso il quale il Partito comunista ha legato maggiormente se stesso al destino della nazione: “il monopolio dell’antifascismo e dello «spirito della Resistenza» fu la condizione per rivendicare il mito nazionale”. Da una rappresentazione patriottica del comunismo italiano non potrebbe essere più lontano Galli della Loggia, che vede nella decisione di Togliatti di schierarsi dalla parte della Jugoslavia sulla questione dell’Istria e della Venezia-Giulia l’espressione più chiara della pulsione contraria all’interesse nazionale italiano proveniente dal PCI. In generale, l’azione del Partito comunista in veste di agente di prossimità di un paese straniero, l’Unione Sovietica, avverso agli interessi nazionali italiani, avrebbe contribuito all’incapacità della Resistenza di “acquisire compiutamente la dimensione nazional-patriottica che, allora come oggi, sarebbe stata necessaria perché essa potesse divenire davvero matrice di «memoria condivisa» per tutti gli italiani”. Più in generale, “la disintegrazione della statualità italiana seguita all’8 settembre creò uno scenario non solo di tipo preunitario, ma […] addirittura seicentesco, nel quale tutti gli attori politici nazionali si trovarono costretti […] a rappresentare ciascuno uno straniero, a doversi identificare in misura maggiore o minore con uno di essi”.

Venendo al mondo cattolico, Galli della Loggia individua nel tentativo da parte della Democrazia Cristiana, fin dal momento della presa di possesso dello Stato, di rendere la comune fede religiosa il collante nazionale, in sostituzione degli ideali risorgimentali, un’amputazione dell’originale idea di nazione italiana. Al contrario, Gentile vede nello sforzo cattolico di conquistare l’italianità, anche attraverso la valorizzazione della componente neo-guelfa del Risorgimento, come un autentico tentativo di ricostruire l’identità nazionale. Un tentativo comunque destinato a fallire, in quanto la “subordinazione dell’identità nazionale all’ideologia del partito fu certamente una delle principali cause che impedirono all’Italia repubblicana di avere un mito nazionale, a prescindere dalla militanza politica”. Gentile esprime così un punto con il quale Galli della Loggia non potrebbe che assentire: “I partiti dell’Italia repubblicana non riuscirono a coltivare e trasmettere agli italiani la coscienza nazionale, l’amor di patria, il senso dello Stato, coniugandoli con i valori della democrazia sociale”.

In conclusione, ci sembra questo il più grave peccato dello Stato repubblicano: non aver saputo definire univocamente l’interesse nazionale, la ragione di Stato, i valori non negoziabili della nazione. Solo in questi si può formare una classe dirigente adeguata, in primo luogo una burocrazia statale funzionante, la quale dovrebbe fare riferimento alla sola cultura della nazione – intesa come spazio non negoziabile di valori – e perciò percepita come rappresentante dell’interesse generale. Tale spazio valoriale va cercato all’interno della nazione stessa, attraverso il dibattito pubblico e accademico: è questo il caso della disputa a distanza tra Ernesto Galli della Loggia ed Emilio Gentile. Un dibattito non a caso avvenuto al tramonto di quel controllo egemonico sullo Stato chiamato Repubblica dei partiti, alba mancata di un nuovo patriottismo democratico.

Bibliografia

Ernesto Galli della Loggia, La morte della patria, Laterza, Roma-Bari, 1996

Emilio Gentile, La Grande Italia. Il mito della nazione nel XX secolo (1997), Laterza, Roma-Bari, 2006

Salvatore Satta, De profundis (1948), Adelphi, Milano, 1980

Eretta nel vento. L’identità triestina sospesa fra Carso e mare

Eretta nel vento. L’identità triestina sospesa fra Carso e mare

Un viaggiatore che arrivi a Trieste dall’Italia, passati Venezia e Monfalcone, dal finestrino del treno scorgerà la distesa azzurra del Golfo. Il confine con la Slovenia è poco lontano e scorre parallelo ai binari. Il viaggiatore vedrà un puntino bianco sulla costa ingrandirsi fino ad assumere le sembianze del Castello di Miramare, costruito nell’800 per volontà di Massimiliano d’Asburgo, fratello dell’allora imperatore d’Austria. La storia narra che egli trovò rifugio da una tempesta in questa baia, ancora selvaggia, e qui volle costruita la sua dimora, nido d’amore per la moglie Carlotta, principessa del Belgio. Lo ha ricordato Carducci nelle Odi barbare: “Deh come tutto sorridea quel dolce/mattin d’aprile, quando usciva il biondo/imperatore, con la bella donna,/a navigare!/A lui dal volto placida raggiava/la maschia possa de l’impero: l’occhio/de la sua donna cerulo e superbo/iva su ’l mare.” Ma la coppia non poté godere a lungo della reggia, del mare e delle piante che ricoprono le rocce carsiche del promontorio. Nel 1864 Massimiliano fu incoronato re del Messico e partì alla volta delle Americhe, dove conobbe la morte, fucilato dai rivoluzionari messicani di Benito Juárez. Carlotta, che invano aveva cercato di convincere i potenti europei a dare man forte al marito, impazzì dal dolore. “Addio, castello pe’ felici giorni/nido d’amore costruito in vano!/Altra su gli ermi oceani rapisce/aura gli sposi.” Per il Castello da allora sono passati numerosi capi militari, molti dei quali morti altrettanto tragicamente, come la principessa Sissi o Francesco Ferdinando, il cui assassinio a Sarajevo darà luogo all’inizio della Prima guerra mondiale. Molti dei gerarchi nazisti che durante il secondo conflitto mondiale avevano residenza a Miramare furono poi fucilati dagli alleati, e la maledizione del Castello divenne ben nota. Quando, dopo il 1945, Trieste divenne Territorio Libero, diviso fra alleati e jugoslavi, vi fu un colonnello dell’esercito neozelandese che scelse di non dormire fra le mura di Miramare e invece di accamparsi nel giardino del parco. La sua sorte fu risparmiata.

Sceso alla Stazione Centrale di Trieste, il nostro viaggiatore si troverà davanti Piazza della Libertà, coi suoi alberi e i silos. Qui arrivano anche i migranti provenienti dai Balcani, e qui si possono trovare attivisti e volontari che si adoperano per offrire loro cibo e coperte. Intorno alla piazza centrale, si incrociano le strade che da Miramare portano al centro della città. Nei mesi più caldi, al tramonto, il sole si riflette sui palazzoni imperiali e dona loro riflessi ambrati; l’azzurro del mare qua non si intravede ancora, ma basta proseguire dritti, seguire il traffico, e s’intravederà nella distanza una folla di persone che paiono camminare sull’acqua. Dalla piazza centrale di Trieste – un tempo Piazza Grande, oggi Piazza Unità d’Italia – si estroflette una passerella grigia, il Molo Audace. Qui, il viaggiatore può fermarsi e aspettare il calare del sole. Piazza Unità pare aprirsi sul mare e accoglierlo in un abbraccio. Luci azzurre fissate sul pavimento sembrano allungare l’estensione dell’acqua fin dentro la città. Una targa per terra ricorda che in questa piazza il 18 settembre 1938 Mussolini annunciava i “provvedimenti in difesa della razza italiana”, le leggi razziali già firmate dal re Vittorio Emanuele III. Lo annunciava in questa piazza, gremita e aperta sul Mare Adriatico, non lontano dal confine con l’Austria che era già stata annessa dalla Germania nazista.
Lasciato il Molo Audace e la targa in memoria delle leggi razziali antiebraiche, il viaggiatore si incamminerà verso le vie del centro fino ad approdare in Piazza Goldoni. Qui potrà scegliere se avventurarsi lungo Viale XX Settembre, disseminato di bar che offrono spritz a ogni ora del giorno, o se svoltare a destra. Da questo lato una scalinata imponente (la Scala dei Giganti) conduce il viaggiatore fino al Parco della Rimembranza. Fra le panchine e i pendii si possono scorgere pietre carsiche con iscritti i nomi dei triestini caduti nella Prima e nella Seconda guerra mondiale, nella guerra civile spagnola, nelle guerre d’Africa. Capita qui d’incontrare qualche turista o qualcuno che corre con gli auricolari e il cellulare fissato all’avambraccio, ma la cadenza prevalente è comunque quella dei triestini, con il loro parlare lento e un po’ sbiascicato. Il viaggiatore può seguire le comitive di adolescenti e studenti universitari che salgono le scale oltre il Parco della Rimembranza, fino al Castello di San Giusto e ai resti della Trieste medioevale. Se il nostro viaggiatore fosse un amante della Storia e dei suoi monumenti, potrebbe programmare per il giorno successivo una gita a Redipuglia, in provincia di Gorizia, per visitare un altro Parco della Rimembranza. Qui vicino, lungo il fiume Isonzo, nel corso della prima guerra mondiale si svolsero sanguinose battaglie e proprio qui Mussolini volle eretto il più grande sacrario militare italiano. Una gradinata di marmo bianco, affiancata da scale e alti cipressi, sovrasta il Carso. Ogni gradino, decorato dalla scritta: “PRESENTE” – richiamo all’appello fascista -, ripetuta per tutta la lunghezza, avvicina oltre centomila caduti italiani al cielo. Intorno, il Parco della Rimembranza ricorda il conflitto mondiale con camminamenti, trincee, lapidi.

Ma se il nostro viaggiatore dovesse preferire i paesaggi naturali alla storia, potrebbe prendere uno dei tanti autobus che portano sull’altipiano del Carso. Il tram che collegava il centro della città al quartiere di Opicina oggi è fermo; tra non molto sarà una cabinovia (che i triestini chiamano ovovia) a ricucire Trieste con il Carso, con rabbia e sgomento di parte della popolazione, che si è mobilitata per protestare contro quest’opera, ritenuta poco sostenibile dal punto di vista economico e ambientale. E se nel centro di Trieste è facile percepire gli sloveni come una minoranza – d’altronde si parla italiano in tutti i bar, e un viaggiatore distratto potrebbe persino scambiare qualche espressione per dialetto veneto – sul Carso le cose cambiano. I cartelli sono bilingui, il confine con la Slovenia è piuttosto vicino, tanto da confondere gli operatori di telefonia mobile: al nostro viaggiatore potrebbe capitare di ricevere un messaggio che dice: “Benvenuto in Slovenia” mentre si trova ancora su suolo italiano. A Opicina, a trecento metri sul livello del mare, convivono centri sportivi dal nome sloveno, un obelisco voluto dagli austriaci e la Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati, istituto attivo nei campi della matematica, della fisica, delle neuroscienze. Un’altra meta popolare per le passeggiate è l’area intorno a Basovizza, che ospita anche la foiba, dove nel corso dell’occupazione jugoslava furono portate a termine una serie di esecuzioni, soprattutto di italiani. I cadaveri furono occultati in un pozzo minerario del Carso.


Prima di sera, il viaggiatore tornerà in città, magari progettando di visitare il giorno seguente anche la Risiera di San Sabba, l’unico campo di sterminio istituito in Italia durante l’occupazione nazista. Sull’autobus osserverà i volti stanchi di chi rientra dal lavoro e i visi imberbi dei ragazzi che scendono in città per la sera. Poi, passeggiando nei vicoli, poco lontano dal mare, incontrerà la statua di Aron Hector Schmitz, che il viaggiatore conosce come Italo Svevo, ebreo convertito a cattolico dopo il matrimonio, scrittore e impiegato di banca. Svevo, nato in Viale XX Settembre quando Trieste era ancora austriaca, dopo il passaggio della città al Regno d’Italia scelse il suo pseudonimo in omaggio alle due culture a cui apparteneva, quella italiana e quella tedesca.
Se inizia a calare il buio e il nostro viaggiatore decide di ritornare verso Piazza Unità, non dovrà farsi prendere dallo sconforto se troverà i bar e i ristoranti chiusi. Svevo stesso ironizzava sulla lentezza della città natia, scrivendo su La Nazione: “Noi del Tramway di Servola abbiamo tutti un aspetto mite di bestie pazienti e bastonate e ciò precisamente perché apparteniamo al Tramway di Servola. Non a questo aspetto soltanto ci conosciamo noi del Tramway di Servola, ma ci conosciamo tutti per nome, cognome e famiglia, da lunghi anni… Poi facendo il bilancio della nostra vita troviamo che metà della stessa è stata impiegata per aspettare il Tramway di Servola e l’altra metà per augurare al Tramway di Servola di andare sulle sue rotaie a quell’altro paese.”

Le vicissitudini storiche che hanno attraversato la città del vento, la “piccola Vienna sul mare”, sembrano quasi aver fermato il tempo e in questa ferita fra terra e Adriatico, fra Carso e mare, Trieste perdura nelle sue divisioni e nelle sue contraddizioni. “Trieste ha una scontrosa/grazia”, scriveva Saba della sua città natale. “Se piace,/è come un ragazzaccio aspro e vorace/con gli occhi azzurri e mani troppo grandi/per regalare un fiore”. Qui, “Intorno/circola ad ogni cosa/un’aria strana, un’aria tormentosa,/l’aria natia./La mia città che in ogni parte è viva,/ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita/pensosa e schiva.”

L’Italia nel guado

L’Italia nel guado

Le nazioni sono composizioni d’uomini; risorgono le nazioni quando risorge uno per uno a virtù ed a civiltà, a concordia di voleri la maggioranza degli uomini che le compongono

Ippolito Nievo, Due scritti politici

Lo ammetto. Mi dichiaro colpevole. Io, reo confesso, accetto la mia pena ed aspetto che la condanna venga eseguita. Aspetto pazientemente e aspetto ancora. Probabilmente aspetterò per sempre: nessuno verrà mai a far rispettare la legge. Ho peccato e tuttora pecco di far parte anche io di quel popolo, che ambisce dirsi italiano, che ripetutamente e consapevolmente pretende di non riconoscere sé stesso, considerandosi al di fuori, o meglio, al di sopra, della cosiddetta patria. Questo è, probabilmente, il più tradizionale dei sintomi dell’italianità: non sentirsi partecipi di un sentimento nazionale, contrastato e aborrito, che purtuttavia aleggia nell’aria, come un docile vento che muove le foglie ma di cui non si riesce a coglierne la direzione.

Addentrarsi nella grande questione riguardante l’identità nazionale italiana è impresa tanto ardua quanto essenziale. Decine di poeti, politologi e politicanti hanno provato nel corso dei secoli a definire questa nostra nazione, cercando di coglierne un senso che andasse oltre la considerazione dell’Italia come mera espressione geografica. Dal Sommo Poeta ai giorni nostri sembra però più facile identificare quegli elementi di cui il popolo italiano non dovrebbe, almeno così speriamo sia realmente, considerare come i veri valori su cui la nazione italiana, e l’appartenenza ad essa, sono fondate. Il collante di questa penisola che ci ostiniamo a chiamare casa è, a quanto pare, la mancata capacità dei suoi abitanti di oltrepassare le differenze locali, ed evidenziare quest’ultime più delle, certamente maggiori, somiglianze. La distanza che separa due italiani è tanto ampia quanto l’immaginazione che la crea. Essa è spesso inesistente, pretestuosa. Eppure, la si pensa presente, e si disprezza il proprio vicino senza averne apparente motivo. Predisposizione naturale di tutti gli uomini, si dirà. Nessuno lo nega, è più facile evidenziare i tratti che più ci differenziano rispetto a quelli che ci accumunano. Il popolo italiano ha però questa (in)capacità, al contrario di molti altri popoli, di non riuscire ad eliminare le distanze municipali quando ci si eleva a livello nazionale. Accade quindi che la patria venga ricordata maggiormente nella sconfitta, nella delusione, nella catastrofe; essa può così essere rinnegata a piacimento, demonizzata al minimo tentennamento, identificata come altro da sé, come versione amputata di quello che avrebbe potuto essere nella sua migliore versione (si, ma quale?). Da questa atavica tendenza tutta italiana si deriva un altro fondamento del nostro essere: la mancanza di responsabilità, la quale viene rivolta in una duplice direzione: verso noi stessi e verso gli altri, con implicazioni che collegano le due direttrici. L’Italia, intendendo cioè il popolo che la abita, ha sempre dimostrato profonde difficoltà ad accettare la sconfitta, a identificarsi con il perdente anche quando evidentemente lo è; tende a coltivare la cattiva abitudine di non volere fare i conti con sé stessa, con il proprio passato e la propria storia, mettendo in atto i due meccanismi di difesa più adatti: la rimozione e, come già detto, la proiezione. Rimuoviamo quanto riteniamo sia di troppo, e quel che non riusciamo a rimuovere lo consideriamo come una responsabilità altrui, come espressione di una componente malata della nazione a cui noi non apparteniamo, della quale non possiamo condividere il tragico destino. Questa la direttrice interna, quella che rivolgiamo verso noi stessi. Mentre quella esterna deriva anch’essa dalla proiezione delle proprie responsabilità, ma in questo caso suo oggetto sono elementi esterni ai nostri confini: se quel che succede in patria non ci piace, ci rivolgiamo speranzosi, trasportandoci direttamente dal municipale al sovranazionale, all’intervento di un veltro, per alcuni Provvidenza, politico, ideologico o economico che sia, che discenda in Italia per ristabilirvi la pace, l’ordine, e che sappia ripristinare, da straniero, il vero spirito patrio.

La delega della responsabilità implica però immancabilmente una rinuncia della propria libertà, della propria autonomia e indipendenza, della possibilità di poter determinare il corso della propria esistenza senza dover soddisfare necessità ed esigenze altre. Quel che l’Italia ha fatto e continua a fare va contro i suoi stessi interessi nazionali. Non c’è bisogno che io citi momenti, fasi storiche, personaggi, eventi, che dimostrino quanto è evidente a tutti noi.

Cosa fare quindi? Di fronte ad un quadro così desolante, destinato a riproporsi sotto diverse vesti ma sempre uguale a sé stesso? Come cambiare le cose? La strada percorribile sembra essere solo una: disperare; abbandonare speranze e buoni propositi; arrampicarsi sugli alberi e rifiutarsi di accettare la realtà dondolandosi da un ramo all’altro; recarsi all’agenzia delle entrate e fare di questa nazione legalmente bordello; comprarsi da sé il gesso e segnare le porte dove alloggerà il nemico, senza aspettare che sia lui ad approfittare della nostra ignavia. Apriamoci al mondo svuotandoci dall’interno. Rinunciamo ad essere qualunque cosa abbiamo mai avuto la velleità di considerarci.

Ma se fosse la perdizione ad essere la strada per ritornare al punto di partenza e provare a ricominciare? Certo, si potrebbe dire che la perdizione stia durando ormai da fin troppo tempo, e che il tragitto per giungere nuovamente da dove siam venuti sia fin troppo travagliato e tortuoso. Tuttavia, non è forse il riconoscimento dell’errore che ci offre la possibilità di redimerci? Non è la strada sbagliata che dovrebbe quanto meno darci l’idea di quella corretta? Siamo lenti ad imparare, questa è una certezza, ma così come si impara a zoppicare si può e si deve, per amor proprio, tornare a camminare dritti e coordinati.

L’incapacità di assumerci le nostre responsabilità ci ha portati, lungo la nostra storia, ad abbandonare la via maestra, quella che persegue il nostro interesse, per percorrere strade a noi sconosciute ma che ci siamo illusi fossero quelle a noi più adatte e congeniali: ci siamo sbagliati, abbiamo sempre sbagliato quando abbiamo preferito affidarci ad altri per cercare di salvare noi stessi: solo le nostre forze possono garantirci la libertà a lungo perseguita. La coscienza delle proprie colpe è solo il primo passo per la sua riacquisizione, d’altronde la società non si pone problemi per la cui soluzione non esistono già le condizioni necessarie e sufficienti. Troppo a lungo abbiamo indugiato in questa media condizione da esuli: provinciali e internazionali allo stesso tempo senza avere la capacità di percepire davvero noi stessi, di essere in grado di guardarci negli occhi, riconoscerci.

Sembra chiaro che gli italiani altro non possano fare che prendere consapevolezza del proprio assoggettamento, spesso autoimposto, acquisendo nuova forza per fuoriuscire da una condizione di minorità, eliminando la propensione al disfattismo, attenuando la preferenza accordata all’anti eroismo. La strada per ottenere maggiore consapevolezza di quello che siamo e, soprattutto, di quello che potremmo essere, è ostacolata solamente dalla nostra cecità, così oscura da non permetterci di distinguere, scorgendone solo la sagoma, gli amici dai nemici. Allo stesso tempo essa è però rivelatrice a tal punto dello spaesamento e della perenne labirintite del paese da farci sperare con Piero Gobetti nella reazione, auspicando “che ci sia chi avrà il coraggio di levare la ghigliottina, che si mantengano le posizioni fino in fondo”, chiedendo “le frustate perché qualcuno si svegli, il boia perché si possa vedere chiaro”. Con la testa incastrata tra la lama e la vita, ci renderemmo improvvisamente conto del fatto che essa è ancora attaccata al resto del corpo. Una fantasia, un sogno irrealizzabile sarebbe quello di divenire consapevoli dei propri mali senza che ci siano altri a condannarci a morte per averli lungamente perpetrati; prendere invece coscienza della grave infermità che ci affligge e, convalescenti, rimettersi pazientemente in salute, aggiustare la propria postura attraverso quotidiano impegno, sarebbe una soluzione preferibile e il primo passo dell’unica strada percorribile per cambiare sé stessi e l’Italia.

In una nazione ignota a sé stessa, ignara della sua (in)esistenza, tardiva nelle sue resipiscenze, molti italiani sono quindi accomunati da un tragico destino: morti ancor prima di morire trascorrono gran parte della propria vita a cercare di comprendere i mali dell’Italia, prima responsabile dello stato derelitto in cui riversa, perché “l’Italia non è serva degli stranieri, ma de’ suoi”. Così Carlo Cattaneo, tra i più importanti teorici risorgimentali, muore in solitudine l’anno prima della breccia di Porta Pia; Ippolito Nievo partecipa alla spedizione dei mille guidata da Garibaldi, e nello stesso anno muore in un naufragio nel mezzo del mar Tirreno mentre era in viaggio dalla Sicilia verso il continente; Piero Gobetti muore esule a Parigi in seguito a complicanze dovute ai ripetuti pestaggi subiti dalle squadre fasciste. Tre italiani che hanno saputo osservare l’Italia, scandagliarne le molteplici sfaccettature, entrare nelle pieghe della storia e farsi parte attiva dello scontro, non venendo mai meno all’impegno della lotta con pessimismo dell’intelligenza e ottimismo della volontà, non accettando compromessi più o meno storici, spingendosi oltre la palude che inabissa ogni speranza e atrofizza ogni slancio, oltrepassando quel guado in tragica solitudine, provando a scorgere, al di là di esso, un’Italia diversa: forse migliore, forse solo più libera.

Solamente nell’abisso de’ suoi mali può concepire il popolo della persuasione de’ suoi diritti che ancora non ha. […] Fra le sventure il nostro popolo ha raccolto due tesori: un tesoro d’odio; e lo deve al nemico stolto e feroce, che non seppe adoperar la vittoria se non a farsi aborrire: un tesoro di fiducia; e lo deve a sé medesimo, perché sa quanto ha potuto e quanto può

Carlo Cattaneo, Una teoria della libertà

Proprio su queste ultime parole sono impostati i lavori che animano questa bimestralità. Nel tentativo di sondare la coscienza italiana ci siamo imbattuti in questioni senza tempo e dibattiti contemporanei, problemi eterni e tentativi (mal)riusciti di fare l’Italia e gli italiani. Di fronte ad un passato che ci obbliga a evidenziarne le mancanze, proviamo a pensare ad un futuro, eterno presente, latore di maggiore consapevolezza e più radicata appartenenza.

Esemplare è l’articolo firmato da Sophia Grew sulla città di Trieste, città di confine tra l’Italia e il mondo. Il viaggiatore che giunge in città ben si rende conto della sua ambiguità. Legalmente italiana, all’apparenza lo spazio pubblico è animato da una pluralità di appartenenze difficilmente eliminabili.

Matteo Mercuri si interessa dell’annosa questione della Morte della Patria e del ruolo svolto dai maggiori partiti antifascisti dopo la Seconda guerra mondiale, illustrando il dibattito tra due dei più importanti storici del Novecento italiano: Ernesto Galli della Loggia e Emilio Gentile. Sempre di uno storico si occupa Marco De Tommasi analizzando gli scritti di Mario Isnenghi sulla storia della nazione italiana, stracolma di fratture, incomprensioni e tensioni mai sopite, cercando di individuare la figura più adatta al loro superamento.

Cercare di comprendere la coscienza nazionale italiana significa non poter prescindere dal considerare il rapporto che l’Italia ha con il suo mare: lo fa Alessandro Andronico che ci parla delle problematicità di una relazione non sempre idiosincratica.

Scritto a quattro mani, l’articolo di Elisa Stella e Gaia Perego si occupa del fondamentale ruolo che ha sempre avuto, e che ha anche oggi, il patrimonio culturale artistico italiano nella formazione dell’identità nazionale, interessandosi di diversi momenti dalla proclamazione dell’Unità all’Italia Repubblicana. Tancredi Roncadin si concentra invece sui metodi, gli obiettivi e le difficoltà, numerose e radicate, dell’insegnamento della filosofia nei licei italiani di oggi. La sua riflessione si interroga sulle incomprensioni legate alla diffusione della disciplina, legandole logicamente alle più ampie problematiche del sistema scolastico italiano.

Siamo poi successivamente andati più a fondo cercando di comprendere il popolo dietro la nazione. I ragazzi del progetto di Substoria hanno studiato, analizzando fonti alternative, l’identità italiana degli emigrati dal suolo patrio, i quali hanno contribuito e contribuiscono a creare una certa idea di Italia. Jozef Taiana cerca di mostrarci un’altra Italia, una versione parallela di quella ufficiale, più nascosta e forse più autentica, prendendo in considerazione il progetto Viaggio in Italia di Luigi Ghirri. Raphael Grew, infine, ci mostra la valenza culturale e politica della tradizione calcistica italiana: contrapposizioni sportive che solo apparentemente sembrano immotivate sono invece giustificate dall’analisi del passato storico dei particolarismi che hanno attraversato l’Italia prima e durante la sua formazione.

Siamo andati alla ricerca di un’Italia che scorre parallela a quella ufficialmente propagandata. Abbiamo indagato campi di vario interesse cercando di trarne uno spirito che li accomunasse. Abbiamo percorso una strada che, fatta di svolte, punti ciechi e pericolosi incroci, ci conduca passo passo ad un’ampia veduta del mare dove la via percorsa si interrompe, sfociando, come tutti i fiumi, nel vasto orizzonte di libertà che una navigazione priva di paure, nostalgie e velleitarismi può offrire.

Bibliografia

Carlo Cattaneo, Una teoria della libertà, Einaudi, Torino

Piero Gobetti, La rivoluzione liberale, Einaudi, Torino

Stefano Jossa, Un paese senza eroi, Laterza, Roma Bari